Il leone delle fiandre

Tra Coppi e Bartali regnò Fiorenzo Magni.Un corridore tenace, volitivo, capace di straordinarie imprese, che seppe imporsi spesso e volentieri tra i due campioni. Una bandiera per la Wilier Triestina. Lo chiamavano il terzo uomo solo perché gli altri due si rubavano la ribalta a vicenda e facevano di tutto per non lasciare spazio ai colleghi. Accadde, invece, che proprio Magni spegnesse i riflettori al campionissimo e al burbero toscano, conquistando strepitose vittorie. Non ebbe mai timori reverenziali e menò botte da orbi spaventose. Pagò dazio alla malasorte e alla cattiveria degli uomini, convinto di potersi riprendere con gli interessi quello che gli rubavano. Tutto quello che riuscì a portare a casa lo ebbe in virtù del suo carattere, di una intelligenza non comune e della capacità di soffrire. Cominciò giovinetto quando lasciò le scuole a Vaiano, paese alla periferia di Prato, dove nacque nel 1920, per aiutare il padre, titolare di una piccola azienda di trasporti.

Due immagini emblematiche di Fiorenzo Magni in piena azione.

In sella ad una vecchia bicicletta coi freni a bacchetta si buttava a capofitto sulle aspre stradine toscane sognando di emulare le gesta di Binda e Girardengo. Le gambe giravano ed il fiato aumentava giorno dopo giorno. Debuttò nella categoria aspiranti con l’associazione ciclistica Pratese, imparando sin dalle prime pedalate quanto faticoso fosse tenere le ruote degli avversari. Polvere e sudore contrassegnarono le prime uscite e lo convinsero che quella era la strada giusta. A 17 anni, passato allievo, non fece neanche in tempo ad assaporare il gusto dolce delle prime vittorie: un incidente stradale gli portò via per sempre il padre. Uno strappo violentissimo, inaspettato e prematuro. Fiorenzo Magni non si perse d’animo. Si fece carico della famiglia e continuò con più rigore e impegno di prima, quasi volesse dimostrare al genitore che lo aveva lasciato che un Magni non s’arrende mai, neppure alle crudeltà della vita. Lavoro e bici, bici e lavoro. Fatica a vagonate. Testa giù e pedalare, con mille pensieri frullanti nel cervello ed un unico obiettivo: diventare un campione, costasse pure mille sacri- fici. Il fisico lo aiutò. Le prime importanti vittorie lo imposero all’attenzione di tecnici e dirigenti. «Però, quel Magni: ha due gambe che sembrano stantuffi, mai stufe di andar su e giù come le bielle di una locomotiva». Roba da sciogliere anche il più cerbero dei pedalatori, ma non Fiorenzo Magni convinto che solo il lavoro continuo e costante lo avrebbe portato a traguardi di prestigio. Nel ’38 vestì la maglia della Montecatini Terme, compagno di squadra di Alfredo Martini, che imparò a temerlo. Pronti via ed era già in fuga, spianando gli Appennini come se al posto di una bicicletta avesse un rullo compressore. Chilometri e chilometri chino sul manubrio, l’occhio svelto ad imparare malizie e trucchi dai più esperti. Dove non arrivavano le forze lo salvava l’astuzia. Tanto corse e tanto vinse che fu selezionato per partecipare ai campionati mondiali di categoria. La guerra, però, era alle porte e la gara iridata saltò. Vinse ancora e il professionismo gli si spalancò attraverso la Bianchi che gli offrì il primo ingaggio. Il dramma dell’otto settembre lo colse impreparato. Dopo la fuga del re e di Badoglio che mollarono l’Italia in mano ai tedeschi e si rifugiarono in Puglia, aderì, come migliaia di altri giovani, alla Repubblica di Salò. Si trasferì a Monza, convinto che le sorti dell’Italia potessero ancora risollevarsi. Conobbe Liliana, che presto sposò. Pagò a carissimo prezzo l’adesione al fascismo. A guerra finita e a liberazione avvenuta gli fu impedito di correre con una squalifica che durò tutto il 1946.

1946/1947 Cottur, Bevilacqua e compagni attorniati dai tifosi.

Ufficialmente perché si sarebbe presentato al nastro di partenza di alcune gare sotto falso nome, più probabilmente per fargli pagare le sue simpatie all’Italia littoria. Non demorse e tutti i giorni continuò ad allenarsi come se dovesse partecipare alla gara della prossima domenica. Sui pedali scaricò rabbia e amarezze, piegando telai e forcelle, temprando ancor di più un carattere già fortissimo di suo. Mentre Coppi e Bartali, Cottur e Martini, Bresci, Maggini e Ortelli vincevano a piene mani, lui si sottoponeva a durissimi allenamenti con la consapevolezza che la ruota avrebbe finalmente preso a girare anche dalla sua parte. Il 1947 lo vide ancora professionista con la Viscontea. Un anno di transizione, giusto per prendere le misure agli avversari, convincersi dei propri mezzi e mettersi nuovamente in luce. Al Giro d’Italia, vinto da Fausto Coppi su Bartali e Bresci, si classificò al nono posto, con oltre 34 minuti di distacco ma ebbe la soddisfazione di cogliere la seconda piazza nella terza tappa, la Genova-Reggio Emila di 220 chilometri alle spalle di Luciano Maggini e nella Pieve di Cadore-Trento, tappone dolomitico con la scalata del Pordoi e del Falzarego, alle spalle di Fausto Coppi, dopo 194 interminabili chilometri. La planata su Trento lo consacrò equilibrista spettacolare mettendo in risalto le sue funamboliche doti di discesista. Quell’anno ottenne anche la piazza d’onore al Giro del Veneto e il settimo alla Milano-Sanremo. Alla Viscontea, a dargli manforte, c’erano Alfio Fazio, Giovanni Corrieri, Elio Bertocchi, Giovanni De Stefanis, Giovanni Ronco e Giuseppe Petrocchi. A fine stagione firmò per la Wilier Triestina, capitanata da Giordano Cottur e guidata, dall’ammiraglia, dall’ex corridore di Loria Giovanni Zandonà. Consapevole che le gare si vincono d’inverno, con una preparazione oculata, sfi- dò le insidie delle nebbie brianzole, i rigori della galaverna, la neve di gennaio, le piogge gelate di febbraio, il vento dispettoso di marzo. Per non saltare neppure un giorno di pane e pedalate, s’allenò in una pista svizzera. Uno, dieci, cento giri uno dietro l’altro. Una sbornia da non raccapezzarsi più.

Manna per i muscoli ed i polmoni. Volle misurarsi all’estero, sfidando sulle fangose pietraie delle Fiandre i campioni del nord, uomini avvezzi ad ogni sorte di fatica, duri a morire come gli eroi omerici. Nel 1948 la prima esperienza, dopo aver assaporato le pietre della Roubaix nella quale si classificò al quinto posto. Solo contro il resto del mondo. A meta corsa cadde e la rottura del telaio lo costrinse alla resa. Un calvario dal quale uscì a testa alta, con la consapevolezza che il Giro delle Fiandre sarebbe stato la sua corsa. L’anno successivo fece tutto, o quasi, da solo. Un mattino prese il treno, caricò la bici e si fiondò in Belgio, in compagnia di Tino Ausenda. Lo accompagnò Guido Giardini, caposervizio della Gazzetta dello Sport al quale aveva telefonato per metterlo al corrente della sua pazza idea. La Wilier non gli mandò né auto né meccanico. Se voleva gareggiare in tanta malora si arrangiasse. Il viaggio fu interminabile, capace di stroncare la resistenza dei pionieri del West, ma non quella del corridore pratese. Scese a Gand e trovò alloggio in un piccolo alberghetto vicino alla stazione. Per caso scoprì che a gestirlo era un ex campione del pedale, Debaets. Gli confidò i suoi progetti, gli chiese consigli. Assaggiò le strade, il tormento del pavé, il gusto amaro della polvere che sapeva di carbone e di miniera e s’incollava maligna sulla pelle. Preparò la bici. Sul manubrio gommapiuma per attutire i colpi, sui cerchioni di legno, più flessibili, montò i tubolari Clement a balloncino che aveva tenuto per mesi in cantina a «maturare». All’albergatore chiese il favore di fargli avere, a metà gara, una borraccia di the caldo. Partì timoroso, assecondato dalla fiducia che gli derivava dal fatto di aver pre- parato tutto per bene, senza tralasciare nulla, guatando di sbieco gli altri 200 av- versari. In prima fila c’erano Van Steenbergen e il campione del mondo Schotte, Gauthier e Demuysère, Caput e Ollevier. Il calendario segnava il 10 aprile. Via a tutta sin dalle prime battute. Le gambe giravano che era un piacere. Un minuto, due minuti, tre minuti di vantaggio. Incredibile Magni. Quando era al limite gli arrivò, miracolosa, la borraccia di the caldo promessagli da Debaets. La maglia rossoalabardata della Wilier era madida di sudore. La polvere di carbone disegnava oscuri arabeschi, tentacoli minacciosi. In testa da solo per 70 chilometri. Quando i cartelli indicarono una decina di chilometri al traguardo lo raggiunse un gruppetto di corridori. Neanche il tempo di scrutarli in volto. Testa bassa e rilancio, dopo aver preso un po’ di fiato. Arrivo in volata. Fiorenzo Magni spremette le ultime energie che gli erano rimaste attaccate e vinse, bruciando Ollivier e Schotte. Un successo straordinario ed inaspettato per la Wilier Triestina, la cui fama aveva oltrepassato i confini. A Bassano si festeggiò e Dal Molin offrì da bere a tutti i dipendenti. A Gand, Magni ritornò l’anno successivo. La casa bassanese lo assecondò. Ad accompagnarlo stavolta c’erano i compagni di squadra: il solito Ausenda, poi Toni Bevilacqua e Alfredo Martini. Conoscendo il percorso e le insidie rappresentate dalle cote e dalle pietre, Magni giocò le sue carte migliori e attaccò il gruppo sullo stesso muro che lo vide scattare l’anno precedente. Sotto la sferza della pioggia si esaltò, alzando il ritmo della gara. All’arrivo il volto era una maschera di fango ingentilito dal sorriso vincitore. Agli avversari non restò che lottare per la seconda piazza. Staccò Schotte di 2’12” e relegò Caput e Diot a 9’ 20”. L’anno successivo, cambiata squadra, fece il tris, migliorando ulteriormente la sua impresa. Così divenne per tutti il «Leone delle Fiandre». Se Coppi e Bartali gli rubavano la scena, quando saliva in Belgio le attenzioni erano tutte per lui. Coccolato dai giornalisti, temuto dagli avversari, osannato dai tifosi, italiani o belgi o francesi che fossero.

Due grandi vecchi amici: Magni e Martini. Assieme a loro Marino Vigna.

Zandonà dall’ammiraglia al furgone.

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18 giugno 2013