La maglia rossa diventa nera

Il furgone, guidato dal mobiliere Romano Dal Lago, aveva lasciato Montecchio Precalcino alle 5. Nel cassone, assieme a tavoli, sedie e generi di conforto, con l’immancabile damigiana di vino rosso erano state caricate anche le bici. Poco prima delle otto, passata Arabba, il mezzo s’inerpicava già lungo i tornanti del Pordoi, alla ricerca di una piazzola. C’erano centinaia di tifosi lungo la strada e non fu facile trovare il posto adatto. Romano, occhio allenato, notò un piccolo spiazzo a bordo strada. Mise la freccia e accostò. In capo ad un paio di minuti tutto il materiale era sull’erba. In quattro e quattr’otto venne imbandita una lunga tavolata ed i bicchieri cominciarono a riempirsi e a vuotarsi alla velocità della luce. Il sole giocava a nascondino con le Dolomiti, bucando i rari cirri a spasso per il cielo azzurro. Pane e salame sparirono nelle bocche affamate. I corridori sarebbero passati davanti alla postazione non prima di sei ore. Per ingannare l’attesa Romano invitò gli amici che lo avevano seguito in auto ad una sgambata in bicicletta. Indossata la divisa verde della “Unione Sportiva Fausto Coppi”, la società ciclistica del paese dedicata al campionissimo, il gruppetto si mosse. In testa si pose Romano per scandire il passo. Dietro di lui, sgranati, gli altri. A chiudere la fila un tipo simpatico, dal volto rubicondo ed i capelli rossi che cominciavano a prendere l’argento. “Andiamo fino al Campolongo – urlò Dal Lago – chi arriva ultimo paga da bere a tutti”. Lungo la salita dovettero fare i conti con gli sfottò della gente, ormai una fiumana, e con la pendenza generosa che metteva a dura prova gambe e polmoni. In meno di un’ora l’allegra brigata, stanca e provata, era già di ritorno. Chi era rimasto di sentinella al campo individuò le maglie verdi in fondo ad Arabba e diede l’allarme: “Stanno tornando, eccoli”.

Carolo a Grado nel 1979 ad un raduno di cicloturismo.

Ebbero il coraggio di imbastire una volata, rischiando cuore e pedivelle. Quando pareva che il ciclista dal volto rubizzo stesse per farcela, mollò tutto e si lasciò sfilare dagli amici. Chiuse in ultima posizione. “Su queste rampe non potevo fare diversamente. 35 anni fa mi comportai esattamente così – spiegò – guai a chi mi tocca questo primato”. Agli spettatori increduli, che nel frattempo avevano trovato posto attorno al tavolo confidando nella generosità della “sentinella”, offrì soccorso Romano Dal Lago, che svelò l’arcano. “Questo signore – disse indicando l’uomo dal volto ru- bizzo – è Sante Carolo, il corridore della Wilier Triestina che nel 1949 vinse la maglia nera, battendo nientemeno che Luigi Malabrocca”. Sante rise di gusto. “Mamma mia quanta fatica per arri- vare ultimo – commentò – Malabrocca, che noi chiamava- mo il “cinese” per via dei tratti orientaleggianti del volto, mi fece patire le pene dell’inferno pur di classificarsi alle mie spalle, inventandosi ogni giorno qualcosa di diverso. Arrivò al punto di nascondersi in una cisterna per l’acqua, fortunatamente vuota ma con il coperchio, pur di non far vedere che s’era fermato. Io viaggiavo con due orologi, attento a non finire fuori tempo massimo”. Carburato dal vino e dai ricordi, Sante Carolo non si fece pregare per continuare con gli aneddoti. “Fui invitato al Giro all’ultimo momento, perché un compagno s’era ammalato alla vigilia della partenza per Palermo. La mia preparazione era sommaria poiché non m’aspettavo di essere scelto per il Giro. Partii stringendo i denti, convinto che se avessi superato la prima tappa, sarei riuscito a raggiungere il traguardo finale trovando per strada la forma che mi mancava”. Con pochi chilometri nelle gambe, Carolo patì le pene dell’inferno al Sud. Ogni giorno giungeva al traguardo staccato di parecchi minuti, qualche volta addirittura di mezze ore. Fu così che si ritrovò, suo malgrado, a chiudere l’elenco della classifica. Allenato a puntino era un buon corridore, utile alla squadra e al capitano Fiorenzo Magni, ma con una preparazione approssimativa era impensabile attendersi prestazioni da campione.

Finito in coda al gruppo, Carolo si affezionò all’insolito primato, solleticato dai premi riservati alla maglia nera. Roba da competere coi primi tre della classe o giù di lì. Ogni sera, nelle città che ospitavano gli arrivi di tappa, andava in onda “Giringiro” una trasmissione radiofonica condotta da Isa Bellini e Silvio Gigli, che conobbe vasta popolarità. Tra un’intervista a Coppi e una a Bartali, riservava ampio spazio anche alle imprese dei gregari, invitando gli ascoltatori a mettere in palio premi per gli ultimi del gruppo. “Arrivarono al punto di dedicarmi una canzone che faceva così: ‘Sul Col di Nava, sotto le stelle, passa Carolo mangiando frittelle’. Un motivetto facile facile, di presa immediata, che la gente mi cantava quando passavo…”. Nell’immaginario collettivo il gregario, dopo aver aiutato il capitano fin dove lo sorreggevano le forze, tirava i remi in barca e cercava di arrivare al traguardo senza sforare il tempo massimo, evitando il buio e le stelle… Carolo si bloccò. Gli occhi piccoli e lucidi. Non fece in tempo a concludere la frase perché le urla della gente lo riportarono al presente. “Eccoli, arrivano, sono tutti in fila indiana…”. Le ombrette ed i ricordi avevano bruciato l’attesa. Il Giro d’Italia del 1984 era giunto alla battaglia finale, quella dei quattro passi: Pordoi, Sella, Gardena e Campolongo con partenza da Selva di Valgardena, dove il giorno innanzi s’era imposto lo spagnolo Marino Lejarreta, e traguardo ad Arabba. Come intuì Sante Carolo, quel giorno Laurent Fignon si superò, vincendo la tappa alla fine di una potente cavalcata straordinaria, strappando la maglia rosa dalle spalle di Moser. Dietro il francesino dall’aria di studente modello per via degli occhialetti tondi che non toglieva mai, giunsero Van der Velde a 20” e Moreno Argentin e Pedersen a 1’52”. Quinto a 1’ 54” si classificò Luciano Loro di Tezze sul Brenta, scudiero di Giovanni Battaglin. A due giorni dal traguardo di Verona, le speranze del trentino, nono ad Arabba a 2’ 19”, parevano irrimediabilmente compromesse. Intervenne di nuovo Sante mentre gli amici ricaricavano bici, tavoli, sedie e la damigiana vuota sul “248” della Fiat. “Quello del ’49 fu il mio primo e unico Giro d’Italia. Tornato a casa lasciai la bicicletta e partii per la Svizzera assieme a mio padre per lavorare come muratore…”. Una carriera brevissima, sempre viva nel ricordo degli appassionati per via della maglia nera che lo rese famoso. Il furgone aveva imboccato la Valle Agordina. Romano guidava attento. Sante, destandosi dal torpore, commentò: “Moser non è finito. Nella tappa di domani, nel Trevigiano, rifarà la gamba e domenica nella cronometro di Verona, si giocherà le ultime chances”. Profetico: nella Arabba-Treviso, che permise ai ciclisti di assaggiare il circuito del Montello che l’anno successivo avrebbe ospitato il campionato del mondo, il trentino conquistò allo sprint la terza piazza, contendendo a due velocisti del calibro di Bontempi e Rosola il successo. Moser, domenica 10 giugno 1984, volò nella sfida contro il tempo da Soave all’Arena di Verona, recuperò lo svantaggio nei confronti di Fignon e vinse il Giro d’Italia con 1’03” di vantaggio sul mite francese.

1949: Carolo insieme ad alcuni compagni della Wilier difronte al Velodromo Mercante di Bassano del Grappa.

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24 giugno 2013