Gioie e dolori del giovane Angelo

 

All’ultimo momento il secondo autista, quello che guidava il furgone coi ricambi e le valigie, s’ammalò. Alla partenza del Giro mancavano pochi giorni e trovare una persona in grado di sostituirlo non era cosa di poco conto. Bepi parlò al comm. Dal Molin: “Conosco un ragazzo di 21 anni, serio. Lavora qui vicino, nell’officina di Gomiero, davanti all’Ossario. Ha già la patente e guida come me. La domenica, per arrotondare, trasporta legname con un camion, dal Grappa alla pianura. Se a lei sta bene gli dico di presentarsi qui domani mattina, così potrà parlargli…Quando gli ho chiesto se gli piacerebbe fare il Giro ha lanciato un urlo. Con Gomiero non ci sono problemi. Sulla serietà e sull’impegno garantisco io: il bocia è mio nipote”. Il mattino seguente, alle otto in punto, Angelo Merlo varcò per la prima volta l’ingresso della fabbrica di via Colomba. Gentile, educato, a modo, destò un’ottima impressione. Bepi lo accompagnò in magazzino e gli fece vedere il furgone rossoamaranto con la grande scritta bianca Wilier Triestina sulle fiancate. Angelo aprì la portiera e si sedette al posto di guida. Regolò sedile e specchietto, pigiò su frizione e freno per tastarne la resistenza, afferrò la leva del cambio e provò ad inserire la prima. I comandi rispondevano docili e il ragazzo si vedeva già sulle strade della corsa rosa tra due ali di folla festante, alle spalle dei campioni lanciati a tutta verso lo striscione d’arrivo…
La realtà fu un tantino diversa, ma Angelo visse quell’avventura come una favola anche se vedeva i corridori solamente di mattino e di sera, mai in corsa e raramente sul traguardo, giacché doveva precederli sempre all’arrivo. La sveglia anche per lui suonava
presto. Due sbadigli, uno spruzzo d’acqua gelida sul viso, il filo del rasoio sul volto insaponato e di corsa giù in cucina ad aiutare il massaggiatore Clerici ad imbottire panini, lavare mele, avvolgere nella stagnola fette di crostata, riempire borracce e preparare i sacchetti del rifornimento di metà gara. Poi, mentre i corridori si avviavano verso la linea di partenza per la firma del foglio di via, faceva il giro di tutte le camere fino a poco prima occupate dagli atleti, nelle quali aleggiava il penetrante odore di olio canforato usato per riscaldare i polpacci. Controllava attentamente che non ci fossero indumenti, biancheria e scarpe sparsi per la stanza: immancabilmente ogni mattina recuperava di tutto. Finita l’indagine prendeva le valigie e le caricava sul furgone, tra telai e ruote di scorta. Quando inseriva la chiave sul quadro di comando del furgone e tirava la levetta dell’accensione facendo borbottare il motore, i corridori stavano pedalando da almeno un’ora. Via, allora, a velocità sostenuta, lungo strade alternative. Cartina in mano, con l’aiuto di Clerici cercava il paese dov’era fissato il rifornimento per consegnare i sacchetti dei panini all’ammiraglia. A volte riusciva ad anticipare la corsa. Altre, invece, arrivava sul posto col cuore in gola per la paura di non farcela. Passati i sacchetti rossi a Bepi e a Giovanni Simeoni, di nuovo a tavoletta sull’acceleratore verso il traguardo. Angelo Merlo e Clerici dovevano precedere il plotone giusto il tempo necessario per trovare l’albergo dove la squadra avrebbe trascorso la notte, prendere in consegna le camere, appendere sulle porte i cartellini coi nomi dei corridori che le avrebbero occupate, sistemare le valigie e fiondarsi in cucina per ordinare la cena ai cuochi. Se tutto filava per il verso giusto e l’albergo era vicino al traguardo, poteva seguire l’arrivo dei corridori altrimenti avrebbe vissuto le fasi salienti della corsa attraverso i racconti di Cottur che a tavola si divertiva a stuzzicare la fantasia del bocia, inventandosi imprese iperboliche dei ciclisti con la maglia alabardata. Concordato il menù e sistemate le stanze, Angelo doveva dare una mano ai meccanici non appena fossero arrivati a destinazione. A lui, il giovane della compagnia, spettava il compito più duro: lavare accuratamente tutte le bici, asciugarle, oliare a puntino ingranaggi e ruote libere, gonfiare i tubolari. Bepi e Giovanni, invece, sistemavano i cambi, sostituivano i pignoni e controllavano i freni, lavoro delicato e di grande precisione.

Le giornate erano interminabili e piene ma l’entusiasmo dei vent’anni e la consapevolezza di vivere un’avventura oltre le righe, da ricordare per tutta la vita, faceva passare in secondo piano stracchezza e fatiche. Un mattino a Terni, dove il giorno precedente Coppi s’era imposto con un vantaggio di 1 minuto e 07” su Luison Bobet nella tappa partita da Perugia, Angelo si svegliò con lo stomaco in subbuglio, la bocca secca e sudori freddi. A fatica buttò giù una tazza di tè. Tribolò più del solito per completare il lavoro di routine. Quando si mise al volante del furgone, direzione Roma, le fitte si fecero più acute. Digrignò i denti, massaggiò la pancia e socchiuse gli occhi. S’aggrappò al volante e partì. Il trasferimento verso la capitale fu un calvario. Dovette fermarsi più volte lungo la strada, tutta su e giù, in preda a impellenti bisogni. La sera precedente aveva mangiato qualcosa di guasto che gli aveva fatto male, scatenandogli una colica. “Chissà – trovò la forza di pensare – se anche i corridori stanno male. Abbiamo mangiato le stesse pietanze”. Raggiunta la città eterna,
impiegò il doppio del tempo per scaricare le valigie e quand’ebbe finito si buttò sul letto piegato in due dal male. Quel pomeriggio non ce la fece ad aiutare i meccanici e scendere nella sala da pranzo per la cena, assieme alla squadra. Anche Alfredo Pasotti e Rinaldo Moresco avvertirono qualche dolorino all’inizio della pedalata, ma i loro stomaci erano più forti di quelli degli struzzi e macinavano qualsiasi cosa mettessero sotto i denti. Sopportarono il male, non mollarono. Bepi, che tentava di rincuorarlo, gli raccontò la volata vinta da Angelo Menon della Stucchi davanti a Pasotti, Maggini e Moresco che seppero recuperare le forze lungo gli interminabili 290 chilometri della tappa. Ben altro ci sarebbe voluto, per metterli a terra, di una colica intestinale causata da una bistecca avariata. Quella sera la maglia rosa passò dalle spalle dello svizzero Schaer a quelle possenti di Rik Van Steenbergen. Rivelatisi inutili bevande e tisane, Bepi
cercò il dottor Frattini, responsabile sanitario del Giro. Il medico non si fece pregare e in capo a cinque minuti era al capezzale del malcapitato Angelo. Lo visitò scrupolosamente, tastandogli lo stomaco e affondando le dita nel fegato. “Colica- sentenziò – causata da cibo avariato. Stai tranquillo, presto passerà. Prendi queste due pillole e cerca di riposare. Domani mangia in bianco e bevi molto”.
Frattini consegnò al secondo autista i farmaci che aveva estratto dall’inseparabile borsa di cuoio. “Oggi ne ho fatto fuori un tubetto intero” commentò. Tra il gruppo dilagavano cagotto e mal di pancia. La medicina fece effetto. Il mattino seguente Angelo si svegliò con due profonde occhiaie, la lingua ricoperta da una patina biancastra e poche forze. Ma i dolori erano spariti e la colica un brutto ricordo.
A Napoli fece in tempo ad applaudire Luigi Casola che batteva in volata Bevilacqua. Pasotti finì terzo. Fiorenzo Magni, capitano della Ganna, prese la maglia rosa che portò fino a Milano vincendo il secondo Giro d’Italia, davanti a Van Steenbergen, Kubler e Coppi. Il primo della Wilier fu Elio Brasola, dodicesimo, ad oltre 12 minuti. Rinaldo Moresco si classificò ventunesimo ed Alfredo Pasotti, partito con le insegne del capitano, chiuse solo venticinquesimo, ad oltre 51 minuti, per colpa di una cotta presa sulle Dolomiti. Angelo Merlo rimase contagiato da quella straordinaria esperienza. “A Milano – raccontò agli amici – stavamo caricando tutto il materiale sul furgone per tornare alla base quando arrivò la polizia tributaria con un ordine di sequestro. La Wilier cominciava ad avere qualche problema economico ed un grosso fornitore brianzolo, non avendo ricevuto i pagamenti pattuiti, chiese il sequestro cautelativo delle bici e dei pezzi di scorta. Rimanemmo bloccati tre giorni perché avevano apposto i sigilli anche alle auto. Solo il 13 giugno, giorno di S. Antonio, dopo che il comm. Dal Molin ebbe saldato il debito, potemmo finalmente lasciare Milano e ritornare a Bassano. Non ne potevamo più: eravamo via da casa da quasi un mese”.

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27 agosto 2013