”Con Coppi, Bartali e Magni c’ero anch’io”

Nel palazzotto di campagna si respira aria d’altri tempi. Il silenzio ovattato che regna nel salone è rotto dal chioccolare dei merli. In cielo un primo, timido, guizzo di rondini. Giovanni Brotto entra con passo deciso, a dispetto dei quasi 89 anni. Fisico asciutto, memoria perfetta, parola pronta. Prende in mano un pacco di vecchie foto, le sfoglia e attacca con nomi e numeri. “Questa è stata scattata alla partenza del giro del ’46. Ci sono anch’io con Cottur, Bevilacqua, Degano, Feruglio e Zandonà…” I ricordi riaffiorano nitidi, precisi: hanno nomi e cognomi, date e città, piazzamenti e classifiche. Un corridore atipico, Giovanni Brotto, alfiere della Wilier nel Giro della rinascita, inserito in squadra con il ruolo di terza punta, dopo Cottur e Bevilacqua. Veloce in pianura, tenace in salita, ottimo al passo. Instancabile. Ha scoperto la bicicletta in gioventù, sfidando le ire del padre, segretario comunale e poi sindaco di Cassola. La sua è una famiglia benestante, rispettata, potente. Il genitore non vorrebbe che il figlio perdesse il suo tempo pedalando. Gli vieta la bici e arriva al punto di nascondergliela in soffitta. Giovanni la scopre. Sega la catena con la quale era stata bloccata. La cala a terra con una lunga corda e la inforca. Via, verso Bassano, il Grappa, l’Altopiano, respirando a pieni polmoni. Il padre è convinto che stia studiando, invece Giovanni sbuffa sui pedali, gustando quelle ore di totale libertà lontano dai libri sfogliati di malavoglia. Inventa scuse d’ogni tipo per giustificare ritardi e stanchezza. Ha sedici anni e grinta da vendere quando debutta in gara. Paga lo scotto del noviziato ma le premesse sono buone. Non corre per avere un pasto assicurato, come fa la stragrande maggioranza dei ciclisti dell’epoca. In casa Brotto la dispensa è sempre ben fornita e poi ci pensa la servitù a preparare piatti sostanziosi. Può permettersi pollo e bistecche ogni giorno. Il 23 settembre del 1934 il giovanotto di Cassola batte tutti a Schio e conquista il titolo di campione veneto allievi. E’ la prima di una lunga serie di vittorie. Alterna gli allenamenti allo studio. In quattro anni inanella qualcosa come un centinaio di successi. Va forte tanto su strada quanto su pista, dove conosce e allaccia amicizia con Toni Bevilacqua. Vince due volte la Astico-Brenta, due volte la Coppa Zardo, due campionati veneti su pista, due Popolarissime a Treviso, due gran premi di Verona. In coppia con Lunardon conquista il Trofeo Vigor a Torino e il trofeo Cognac Buton. Veste la maglia azzurra e termina al secondo posto nella corsa a tappe Milano-Monaco. Un mattino arriva in ritardo a scuola.

Il giorno prima ha vinto una corsa e la Gazzetta, che tiene in tasca, riporta la cronaca della gara, titolando “Giovanni Brotto campione”. Il preside Lelio Spagnolo, amico di famiglia, lo blocca prima che entri in aula. Gli prende il giornale, scorre l’articolo. Alla fine lo fissa negli occhi: “Che fossi un can – gli dice – lo sapevo. Ma non sospettavo che fossi anche un pione”. Il benevolo rimbrotto finisce in una sonora risata. A casa l’austero padre s’è rassegnato. Il fratello maggiore, studente niversitario, quando può lo segue. La mamma, maestra, trepida per quello scavezzacollo che vince sempre più spesso. Mentre, sinistri, si levano echi di guerra, diventa professionista, ingaggiato dalla Bianchi del comm. Zambrini: farà il gregario, alla pari di Fausto Coppi, di Gino Bartali. C’è anche Giovanni Brotto nella squadra biancoceleste che affronta il Giro d’Italia del 1940. Quello che sulla carta è indicato come il Giro di Bartali sulla strada si trasforma nel trionfo del corridore di Novi Ligure. Giovanni Brotto porta borracce e panini. Aiuta Ginettaccio e un Fausto sempre più audace. In corsa spende tutto e quando non ce la fa più, stringe i denti, soffre, ma non molla. Altro che figlio di papà! Un po’ di merito nel primo successo rosa del campionissimo è anche suo. Il servizio militare chiama, Giovanni risponde. Finisce in caserma a Bassano. Alterna servizi ed allenamenti e quando i superiori glielo consentono si presenta ai nastri di partenza delle ultime gare. Nel 1941 in calendario c’è una gran fondo, da Milano a Milano, attraverso la Lombardia: seicento chilometri tra pianura e montagna, toccando Cremona, Mantova, Bergamo, Sondrio e la Valtellina. “La partenza da Porta Ticinese – ricorda Giovanni Brotto – fu data a mezzanotte. Partimmo con lampade appese al manubrio. Davanti a noi ci aspettavano seicento chilometri. Ogni cento c’era un rifornimento. Non misi mai il piede a terra. Pedalai per diciotto ore consecutive. Un martirio rimanere in sella tutto quel tempo. Arrivai col gruppo dei primi attorno alle 18. Neanche il tempo di lavarmi e cambiarmi ed ero già sul treno per Bassano. Giunsi in caserma a notte fonda. L’ufficiale di picchetto, quando mi vide, volle sapere tutto della gara. Quando s’accorse che stavo per crollare mi ordinò di andare in infermeria per riposare. Erano due giorni che non vedevo un letto. Sprofondai in un sonno ristoratore e mi svegliai solamente la notte successiva.” L’anno dopo Giovanni Brotto disputò la Milano-Sanremo, classica gara d’apertura della stagione chiudendo al quinto posto. Gli anni della guerra furono terribili: allarmi, bombardamenti, barbare esecuzioni. Bassano visse il tragico martirio dei giovani partigiani rastrellati sul Grappa e impiccati lungo i viali più belli della città. Dopo la Liberazione, Giovanni Brotto tirò fuori la bici che aveva nascosto nel granaio per paura delle requisizioni che i tedeschi, arroccati tra Rosà, Cassola e Bassano, erano soliti mettere in atto. Gli bastarono poche settimane per ritrovare il colpo di pedale giusto, rompere il fiato, modellare la gamba. Quando il cav. Dal Molin gli propose di correre per la Wilier Triestina gli parve di toccare il cielo con un dito. Non ci pensò due volte, rispose di sì e si ritrovò di nuovo in sella, come ai bei tempi, in una squadra che richiamava all’unità d’Italia, la più attesa, ammirata ed applaudita lungo le strade del Giro. Con Cottur, Piccolroaz, Degano, Feruglio, Menon e Bevilacqua fu subito amicizia. L’anno dopo passò alla Arbos-Talbot e partecipò al terzo giro d’Italia assieme a Brignoli, Canavesi, Generati, Lambertini, Zanacchi e Locatelli. “Il giro lo vinse Fausto Coppi, davanti a Gino Bartali e a Giulio Bresci. Io finii al 44° posto” ricorda con orgoglio Brotto. Quell’anno la Wilier Triestina, capitanata da Cottur che vinse per distacco la tappa Firenze-Perugia di 161 chilometri, era composta da Feruglio, Monari, Piccolroaz, De Santi, e Vincenzo e Vittorio Rossello. Cottur si ritirò. Il migliore dei rossoalabardati fu Egidio Feruglio,
ventisettesimo.

Classe 1917, Brotto ha ormai trenta anni. Gareggia ancora qualche stagione, si mette in luce nelle riunioni su pista, ma la carriera è al tramonto. Avvia con successo un’attività imprenditoriale ma la bici rimane sempre nel suo cuore. Le foto ingiallite riportano ai nostri giorni. Un salto di oltre mezzo secolo. Nel tinello del palazzo di campagna i grandi quadri degli avi appesi alle pareti e i busti di marmo degli illustri predecessori, tra i quali alti prelati, testimoniano di origini nobili ed epoche lontane. Quante cene e quanti incontri con i colleghi di un tempo nel severo salone da pranzo: attorno al grande tavolo di legno massiccio si sono seduti tutti i più grandi campioni del pedale per festeggiare, con ogni bendiddio che casa Brotto generosamente offriva, amicizie sempre verdi. Una sera Giovanni Zandonà rischiò di soffocare a causa di un ossicino di anatra conficcatosi maligno nella gola. Era una forchetta straordinaria e davanti ad un magnifico arrosto ruspante non seppe resistere, tuffandosi sulla carne con una voracità irresistibile.

I commensali pensavano stesse scherzando. Poco mancò, invece, che finisse all’altro mondo. Lo salvarono le vigorose pacche mollategli sulle spalle da Toni Bevilacqua, un altro che a tavola non si faceva mancare nulla. Nelle librerie, allineati, centinaia di tomi su cui studiarono zii, nonni e bisnonni di Giovanni e sui quali, ora, indugia il figlio Agostino, architetto con la passione per la ricerca storica. Brotto ha pedalato sino a qualche anno fa, divertendosi a staccare quelli che potrebbero essere i suoi nipoti. Su e giù, con la leggerezza e l’agilità di un capriolo, lungo le tortuose stradine del Grappa, con pendenze a volte impossibili, senza sentire fatica e catena, il ronzio del cambio per voce amica. Potente come quando correva a fianco di Cottur e Bevilacqua e passava la borraccia a Bartali e a Coppi. “Ho smesso quando un camion, sorpassandomi, mi ha spostato col colpo d’aria. Troppo rischioso correre in queste condizioni”. Ripone sul tavolo le foto. Guarda oltre lafinestra. I merli tacciono. Cala la sera. Cassola, 24 marzo 2006.

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10 settembre 2013