posted: 17/04/13 at 05:07 pm

TUTTE LE SALITE DEL MONDO #13 | FANGO

By: Ufficio Marketing
Categoria: Storie
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Si avvicina la Oetzi Alpin Marathon, sabato prossimo 20 aprile. Fango2Il secondo appuntamento impegnativo nel mio calendario di gare pazze da vecchietto nel corso di questo 2013. E’ un triathlon in montagna, con tre diverse prove: mountain bike, corsa in salita e sci alpinismo. Una maratona massacrante di 42,2 km così suddivisi: 25 km bici, 10 km di corsa e il restante, in verticale, con gli sci d’alpinismo e le pelli di foca fino ad arrivare su su all’alto ghiacciaio della Val Senales a quota 3.200 metri, a poca distanza dal ritrovamento di Oetzi, la mummia del Similaum, l’uomo venuto dal ghiaccio. La prova, tutta in salita, nello spirito di questo blog, prevede il superamento di un dislivello di 3.342 metri. Con me alla partenza ci saranno altri 500 pazzi, provenienti da 9 paesi. Sarà di sicuro una bella giornata di sport, in uno scenario naturale dalla bellezza eterna.

Oltre alle difficoltà della prova – diciamo così – sportive, legate alla fatica, ai chilometri e alle salite da salire, la Oetzi presenta anche qualche complicazione tecnica. Bisogna saper andare in mountain bike. E poi c’è la salita finale del ghiacciaio sugli sci: sei chilometri mozzafiato – con pendenze da paura, mi ha detto chi l’ha già fatta, che non lasciano un attimo di respiro. Il mio obiettivo, come sempre, è arrivare in fondo, entro il tempo massimo certo, e poi godermela, con tutte le sensazioni che verranno. Per prepararmi, nella tabella di marcia dei miei allenamenti quotidiani oggi c’è un’uscita in mountain bike, la prima della stagione. Fango3Ho una mountain bike della Wilier per questa prova, una bici tutta in carbonio, leggerissima, con le ruote da 29’ come quelle delle bici da corsa. Ma devo provarla. E così stamane ho un appuntamento alla stazione ferroviaria di Monza con il mio amico-collega Gianfranco Ubbiali, biker appassionato di off road, boschi e salite della Brianza, per immergermi – temo – nel fango.

Ho un brutto ricordo delle gare in mountain bike. Lo scorso anno ho partecipato alla Sellaronda Hero, il giro delle Dolomiti fuoristrada. Aveva piovuto tanto fino al giorno prima e anche alla partenza della gara pioveva quel giorno. Così il terreno era dannatamente morbido. Siamo partiti tutti assieme. Diverse centinaia di ciclisti sulla strada asfaltata, a Selva, ma in salita, sullo sterrato dei sentieri alpini, ci siamo allineati in un lungo treno a due ruote. E’ successo che nei punti più tecnici del percorso, considerando che eravamo davvero tanti, mi sono trovato più di una volta in difficoltà perché, con i piedi legati ai pedali, avevo davanti qualcuno, a 10/15 cm dalla mia ruota, che magari rallentava in salita perché era stanco. Non riuscivo a passarlo perché la strada stretta non lo permetteva. Da un lato avevo il dirupo, il vuoto. E dietro la mia ruota, attaccato, un altro ciclista che saliva.

II timore di toccare qualcuno o di essere toccato da qualcuno, e soprattutto di volare giù, nel dirupo, mi ha accompagnato per tutta la salita. Non è successo. Ma il peggio doveva ancora arrivare. Ed è arrivato – pensate – in discesa perché tutti si sono lanciati come in una gara di downhill o come sembrava di essere, in una gara di motocross sul fango, su un terrreno che non teneva, con tratti tecnici e difficili da passare: salti gradoni, curve a gomito… Non so se avete presente la lunga discesa che scende da Selva di Val Gardena e dal Passo Sella verso Colfosco e poi Corvara (d’inverno è una pista da sci). Bene, a un certo punto si apre un ponticello dove quando c’e’ la neve passano in alto gli impianti di risalita e le seggiovie e, sotto, gli sciatori: dovevamo passare sotto anche noi. E in quel tratto del percorso la discesa derapa verso valle in modo irregolare. L’ho presa a tutta, troppo veloce e il fango ha fatto il resto. Difficile restare in piedi.

La mia bici è scivolata via e sono scivolato anche io con i piedi attaccati. Sono rimasto a terra per qualche interminabile secondo. Il tempo di staccarmi dai pedali. Sentivo i sibili delle bici sfrecciarmi accanto. Mentre cercavo di muovermi ho visto uno che mi veniva sopra. E’ stato un attimo. Un flash. Il tipo mi è rotolato addosso smadonnandFango7o senza che potessi fare niente per evitarlo o per proteggermi. Ho solo un ricordo, che ancora mi terrorizza: il pedalino Shimano della sua bici, che è una specie di punta in acciaio a forma di enorme moneta ruotante, mi è passato a qualche centimetro dalla spina dorsale. Sarebbe bastato un niente per farsi davvero male e restarci secco. Per fortuna, davvero per fortuna, quel pedale non mi ha toccato. Ma appena mi sono rialzato ho deciso che, gara o non gara, in quelle condizioni del terreno era davvero troppo rischioso continuare. Ho concluso la gara con calma, aspettando i miei amici Fufu runners che arrivavano dietro di me e che avevano preso la salita con più tranquillità (ma all’ultimo passo ci siamo fermati in un rifugio a bere una birra).

Basta un niente per farsi male in montagna. Lo dicono sempre le guide alpine. Più si diventa esperti più aumenta la prudenza. Ebbene, dopo quella brutta esperienza mi è rimasto come un blocco rispetto alle gare in mountain bike. Le vedo più simili al motocross che al ciclismo. E davvero, quando è così pericoloso, non mi interessa gareggiare. Non è per me. Ma devo superare il blocco: alla Oetzi marathon ci saranno quasi mille metri di dislivello da superare nella parte in bici e quelli non mi fanno paura. Ma ci sarà anche una discesa. E’ giunto il momento di provarci.

Le condizioni del terreno, visto che ha piovuto fino a due giorni fa in Lombardia, saranno pessime come quelle della Hero 2012. Gianfranco mi aspetta alla Stazione Fs di Monza  già pronto per partire. Dovremo prendere un trenino che ci porta a Montevecchia, sui colli. Io arrivo con un altro treno locale che viene da Albairate: non mi andava di attraversare Milano in auto nell’ora di punta. Preferisco il treno, preferisco vedere il mondo dal finestrino e stare lì a pensare, con l’odore dei treni al mattino e i sogni nel cassetto di centinaia di pendolari che mi passano accanto prima di entrare nelle loro gabbie – gli uffici, le fabbriche – alla ricerca della produttività perduta. Il cielo è bigio come quasi sempre qui nella Padania (mi manca sempre il sole del centro Italia ma ormai, visto che vivo qui, questa è una condizione esistenziale, di nostalgia perenne per la luce, il sole. Avete presente la saudade brasiliana per il Samba, la natura lussureggiante, la frutta, le spiagge di Rio, i colori del Brasile… Insomma è così anche per me al capitolo: sole e nebbie padane.

Non ci bado neanche più alla nebbia. Me ne accorgo solo quando torna. Quando mi capita di scollinare l’Appennino, non appena si arriva alle prime colline tra Rimini e Pesaro. O passata Bologna sulla strada che sale e poi scende verso Firenze. Non so come dire: il panorama esteriore, ma anche quello interiore, dentro di me, alla vista del sole e della luce, cambia. Qui, in Lombardia, è così. C’è poco da fare. Stanno meglio al di la’ delle Alpi o nelle Prealpi, oltre la coltre di nuvole basse che ci tiene compagnia da queste parti cinque-sei mesi all’anno. Il mio treno è puntuale. Ma arriva a Monza nello stesso minuto in cui parte l’altro. Confido nell’efficienza del sistema Trenord, dell’efficienza lombarda simile a quella elvetica. Ma Gianfranco per sicurezza è già fermo al binario 4 per avvisare il capotreno di aspettarmi.

Vedo il mio treno al binario quattro. Io arrivo al numero uno. GianfrancoScendo in fretta, e per fare più in fretta, anche se è vietato, mi lancio con la bici sul binario fino al sottopassaggio cercando di schivare orde di incolpevoli pendolari che vanno verso il loro martirio quotidiano. Mi scapicollo con la bici sulle scale. Il fiatone in gola e arrivo con un tempo degno di un centrometrista al fatidico binario 4. Il treno non c’è più. Gianfranco mi accoglie con un sorriso sconsolato: “Mi ha detto che non poteva aspettare dieci secondi in più. Sai come sono fatti qui in Lombardia, mi spiace”. Dispiace anche a me. Ma mi chiedo perché il signore che ha studiato gli orari delle Trenord ha pensato bene di far arrivare e partire due treni allo stesso minuto senza fare in modo che chi arriva con uno – come sarebbe logico e come fanno gli svizzeri (non ci sono più i lumbard di un tempo) – possa avere il tempo di prendere l’altro treno.

Improvvisiamo come si fa nel jazz cambiando programma per il nostro giro in bici. Abbiamo un problema temporale: Gianfranco oggi pomeriggio deve essere alle 16 in redazione al Sole 24 Ore a Milano, per gestire tutta la produzione del giornale e il reparto dei grafici. Io sono a casa. Ho un giorno di riposo e non ho problemi. Comunque andrà, sappiamo che si deve rientrare a un certo punto. Cominciamo a pedalare nel centro storico di Monza fino al Parco.  “Andiamo lo stesso a Montevecchia – mi propone il mio amico biker – ma lo faremo passando per sentieri e campi e boschi”. Attraversiamo il Parco di Monza, la Villa Reale, i suoi viali. E’ uno dei posti più belli per correre in citta’ in Lombardia, lontano dal traffico, e immersi nell’area verde urbana più estesa d’Europa. Per me questo posto ha un valore speciale perché è qui che ho incontrato mia moglie, che mi è venuta a recuperare dopo un allenamento di 20 km, tanti anni fa. Quindi riconosco le strade, le discese, le salitelle e le curve. Continuo a pedalare in agilità dietro al mio amico Gianfranco che fa da guida. Il bello deve ancora venire.

A un certo punto, ancora dentro al Parco, il mio amico prende un sentiero sterrato tra gli alberi. E continua ad andare veloce. Bisogna stare attenti in mountain bike, intravedere davanti a sé il percorso prossimo e immaginare, prima di arrivare, i movimenti giusti: il ramo da schivare, l’albero da non prendere in faccia, la buca da lasciare da parte… Comincio a ballare nel fango, ma non mollo. Appena arriva la salita, Gianfranco rallenta e io invece vado veloce. Poi riprendiamo il treno. Lui davanti e io che gli sto dietro.

Allontanandoci da Monza, attraversiamo boschi e lunghi tratti di terreno davvero in condizioni estreme. Il maltempo in un punto ha spezzato gli alberi che sono finiti sul sentiero. Per continuare siamo costretti a scendere dalle bici e a farle passare a mano tra i rami, alzandole oltre gli alberi, al di là dell’ostacolo. Siamo infangati ma felici.FangoContinuiamo e percorrere i sentieri scoscesi in questa specie di iniziazione al motocross su bici che è la mbk. La mia Wilier, devo dire, risponde bene. Non so se è per via delle ruote da 29’ o per la particolare configurazione del telaio in carbonio che, come per la bici da strada, è più rigido nella zona del movimento centrale, dove ci sono i pedali. Fatto sta che mi sembra di riuscire a superare con più facilità gli ostacoli di quanto non faccia con la mia mbk sempre in carbonio, ma con le ruote più piccole.

A un certo punto Gianfranco mi informa del fatto che stiamo per costeggiare la villa di Arcore. Quella villa. “Passeremo sul retro, nel sentiero che costeggia il parco”. Gli lancio lì, per scherzare, una boutade provocatoria: “Perché non ci fermiamo davanti al cancello a fare pipì?”. Poi ripenso alla frase di Voltaire … (“Disapprovo quel che dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo”) e continuo a pedalare. DaVideo1a(1)La villa dell’uomo di Arcore è davvero uno spettacolo, immersa in una natura di incanto. Il parco, enorme, si stende sulla collina tra casotti di caccia e alberi secolari. Mi chiedo vedendo un posto di tale bellezza paesaggistica come un uomo di 75 anni possa ridursi così. Ma perché non va a prendere funghi o a passeggiare invece di assatanarsi dietro starlet e minorenni improbabili finte nipoti di Mubarak? Strano davvero confrontare la bellezza del luogo con la povertà di valori del ricco politico, il contrario della bellezza, quella vera. Non è una questione di destra e sinistra. In un paese normale, un leader di destra con un programma politico neo-liberista perfetto sarebbe uno come Monti. Uno perbene, che dice delle cose di destra, che io non condivido, ma onesto. In Italia no. VillaSMartinoUn terzo degli italiani continua a credere al libro dei sogni dell’uomo di Arcore che usa la cosa pubblica per i suoi interessi personali. E’ molto triste. Anche perché i 20 anni di questo paese bloccato sono dovuti per gran parte alle responsabilità e all’ignavia di quest’uomo che ci ha governato pensando agli affari propri e ai festini ad Arcore con le tette della Minetti vestita da infermiera, piuttosto che ai problemi della gente. Aveva ragione Veronica quando parlava di un uomo malato che ha bisogno di aiuto. Ma guai a parlarne male. Subito si passa a essere denigrati, si è tacciati di comunismo, di essere anti democratici, giustizialisti… L’uomo che vive oltre questo parco, e la sua schiera di sergenti e sergentini, continua a bloccare questo paese. Questa è la storia. E quando un giorno finalmente deciderà di farsi da parte o, come dice ora, di scappare all’estero, sarà un bel giorno per l’Italia.

Un uomo solo al comando, non so a voi, ma a me è FaustoCoppipiaciuta sempre come immagine ripensando a quella salita del Giro d’Italia del 1949, a una maglietta bianco-celeste, un uomo secco un po’ gobbo, piegato sui pedali, con una faccia “triste come una salita” che parla di fatica e sudore e un nome epico: Angelo Fausto Coppi da Castellania, il garzone del salumiere. Scusate la digressione, ma il parco di Arcore mi ha distolto dai pensieri pedalanti. Continuiamo a salire immersi nel verde e nel fango. Ora siamo dalle parti di Usmate e Velate e la fatica comincia a farsi sentire. Gianfranco mi dice che ci siamo quasi. All’orizzonte, in effetti, in alto oltre la collina e quella successiva che c’è ancora al di là degli occhi, si vede un campanile: Montevecchia, l’arrivo. Si balla la samba in discesa e nei tratti più difficili del percorso sterrato tanto che mi comincia a far male il polso. Dopo l’ultima salita si entra in paese. Siamo arrivati in anticipo rispetto al treno che ci riporterà da Montevecchia a Monza. Il barista ci dice che su strada sono “solo” 20 km. Sono le 12.05. Il mio treno, da Monza, parte alle 12.45. “Proviamo?” mi lancia lì il mio compagno di ventura mentre beviamo un caffè. Ma come? Non avevamo finito di soffrire? Prima di rispondere ho già accettato la nuova sfida. D’altronde l’asfalto e il traffico non mi fanno paura come il fango e quei sentieri accidentati che ci siamo lasciati alle spalle, nonostante il male al polso. Così riprendiamo a pedalare, ora di lena, a tutta, facciamo un treno per non perderlo il treno. Tiro io e tiri tu. Con cambi più o meno regolari, comunque in sintonia.  Fango4Arriviamo alla stazione di Monza alle 12.40. Questa volta dovrei farcela a salire sul vagone in tempo. Ma avrei accettato di buon grado l’ennesimo inconveniente sulla tabella di marcia. Ripiegando su una pausa forzata in un ristorante. Davanti a un piatto fumante di spaghetti. Carboidrati. Per gli sportivi sono l’equivalente delle bistecche di Tex Willer e Kit Carson. Il mio socio congedandomi mi dice che siamo andati a 30-35 all’ora negli ultimi 20 km su strada. Non male per essere su delle bici da montagna. Ci salutiamo in fretta. Ora, mentre sul treno guardo il panorama fuori, sporco di fango e comincio a scrivere queste righe, mi sento davvero stanco, ma felice.

Guarda i dettagli del mio allenamento (Garmin Connect).

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