posted: 28/03/13 at 11:11 am

TUTTE LE SALITE DEL MONDO #7 | W L’ITALIA LIBERA E REDENTA

By: Ufficio Marketing
Categoria: Storie
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Visitare la fabbrica della Wilier Triestina per un appassionato delle due ruote è come per un cristiano andare a San Pietro. Ci sono pochi posti così in Italia. Si contano sulla punta delle dita. Marchi storici che hanno fatto la storia di questo sport fatto di fatica e di salite, di ruote bucate, di grandi imprese e di passioni infuocate, di un’Italia divisa in due – ancora ahimè d’attualità – Coppi o Bartali, Moser o Saronni. Molti marchi storici sono andati perduti: Legnano, la bici di Ginaccio, era diventata un marchio low cost di Bianchi, e oggi non esiste praticamente più. Benotto è finita agli inglesi ma non ha neanche un sito. Altri resistono perché hanno saputo innovare. Wilier, dopo un periodo di crisi negli anni Sessanta, è rinata ed è tornata grande con Lino Gastaldello e ora con i suoi figli. Oggi è uno degli alfieri del migliore made in Italy nel mondo. Alta gamma delle due ruote. Sono venuto qui, a Rossano Veneto, nel distretto produttivo vicentino dove si va a pane e bici,  perché i ragazzi di Wilier hanno creduto nel mio progetto di sfide pazze con la bici da persona comune e mi hanno messo a disposizione un paio di queste “Ferrari a due ruote” con cui affrontare nei prossimi mesi erte, cime, apici, tornanti, strade che vanno sempre su, quelle che non vedi mai la fine, quelle che non ce la fai più, quelle che vai a zig zag su sino al vertice, il culmine, il punto più alto dove l’aria è rarefatta, il cielo più vicino e, finalmente, metti i piedi a terra, svuotato, leggero ma felice.

Per i maniaci del pedale: ho una Cento1sr – si chiama 101 perché è nata l’anno dopo i festeggiamenti del centenario della casa di Rossano Veneto – super concentrato di tecnologia e design. Bella davvero, colore nero matt con le fibre di carbonio che si intravedono dal telaio, cavi integrati, regisella integrato e aerodinamico mediato dalle bici da crono, carro posteriore asimmetrico, forcella integrata nel telaio e ribassata per una migliore guidabilità (l’ho provata: è davvero così), movimento centrale a larghezza maggiorata per un telaio che pesa meno di un chilo. Avete presente la scatola del sale da un chilo? Meno di così. Eppoi ho anche in prestito la mountain bike 101XN, che userò allaOetzi marathon, versione fuoristrada della stessa bici da strada hi-tech, con la stessa filosofia costruttiva, i cavi interni, i tubi di carbonio a diverso volume, i freni a disco, le ruote da 29” e due sole corone davanti – non me la sono sentita di prendere quella dei pro con una sola corona – io non sono un campione…

Nelle salite c’è tutto il ciclismo epico, letterario. E qui alla Wilier, accanto alle fuoriserie hi-tech di ultima generazione come quelle che ho tra le mani, ci sono i segni di un lungo passato più che centenario. La bici del primo Pantani, quella del record di ascesa – ancora imbattuto – all’Alpe d’Huez, quella di Fiorenzo Magni, il Leone delle Fiandre, i giornali dell’epoca, le maglie, le lettere di Alfredo Martini, altro campione del dopoguerra a vestire la maglia rossa, fino alle immagini più recenti di Ballan, Cunego e Scarponi.

FabbricabiciwilierLa Wilier nasce nel 1906 a Bassano del Grappa, dove c’è il famoso ponte degli alpini. Pietro Dal Molin, commerciante e artigiano del posto, acquista un marchio inglese semi-sconosciuto e apre una fabbrica di biciclette, o bicicli come si diceva allora. Aveva intravisto in quel prodotto il futuro della mobilità, più alla portata rispetto alle auto, ancora solo per ricchi. L’impianto a carattere industriale consentì la prima produzione di serie delle due ruote e questo favorì la loro diffusione in tutto il Nordest prima e poi, via via, in tutta Italia dei bicicli Wilier che in breve tempo divenne una marca riconosciuta, alla pari delle milanesi Bianchi e Legnano: durante la Prima guerra mondiale i bersaglieri avevano in dotazione le Wilier.

Dopo qualche anno il fondatore, Pietro, passò le redini dell’azienda al figlio Mario, che rinominò la fabbrica in Ciclomeccanica Dal Molin  Fabbricawilier2e oltre alla produzione di due ruote, creò dei reparti destinati alla cromatura e alla nichelatura dei metalli: la bici Wilier color oro, ramata, per decenni fu il simbolo di questo marchio.

Lo stabilimento di Bassano nell’aprile del 1945 fu gravemente danneggiato dai bombardamenti alleati. Ma Dal Molin non si perse d’animo. E con la fine delle ostilità ripartì di gran lena, riconvertendo interamente la sua produzione alla bicicletta, con tutte le fasi della produzione in azienda: dalla saldatura dei tubi di acciaio alla verniciatura sino al montaggio dei componenti. Nel 1946 decise di entrare anche nel ciclismo professionistico.

Il nome della nuova squadra assume un significato patriottico: Wilier Triestina che sta perW l’Italia LIbera e Redenta.

I suoi atleti, tutti veneti e friulani, gareggiano per difendere l’idea dell’Italia unita: hanno la maglia rossa con il simbolo dell’alabarda di San Sergio, martire cristiano in Siria nel terzo secolo dopo Cristo, conservata nella cattedrale di Trieste e simbolo della città giuliana.

L’irredentismo, movimento politico anti-austriaco, nato a fine Ottocento per il compimento del disegno risorgimentale della riunificazione, si diffuse in Trentino e nella Venezia Giulia.
Trieste, Triestecome Trento aspirava all’annessione all’Italia, e nel 1918 fu l’obiettivo di una delle più cruente battaglie della prima Guerra mondiale, per la liberazione dal dominio austro-ungarico. Nel secondo dopoguerra, dopo i duri anni dell’occupazione nazista culminata nelle atrocità dei forni crematori alla Risiera di san Sabba, la città giuliana conobbe anni difficili con l’occupazione da parte dell’Esercito di liberazione jugoslavo che assunse i pieni poteri, proclamando lo stato di guerra e imponendo il coprifuoco. Il 9 giugno del ‘45 fu firmato un accordo provvisorio sull’occupazione di Trieste e gli alleati assunserò il controllo della città. Nel 1947, sotto l’egida dell’Onu, fu creato il Territorio libero di Trieste, diviso in due zone di occupazione miltiare, una angloamericana e l’altra a influenza slava-sovietica. Fino alla seconda “redenzione” datata 1954, quando la città tornò nuovamente italiana, confermando però  la divisione in due zone.

Ecco perché Il Gazzettino, il giornale delle Venezie, in un articolo datato 5 giugno 1946, salutava con enfasi la nascita di questa squadra di ciclismo, pochi giorni prima della partenza del Giro d’Italia, il giro del 1946, la prima manifestazione sportiva che riunisce l’Italia del dopoguerra.

Sette maglie rosse con l’insegna di San Giusto sono in campo nel Giro d’Italia. Sette maglie, una squadra sportiva, una bandiera, un simbolo. Rappresentano la città a noi più cara, Trieste, esprimono i sentimenti dei triestini e di tutta la regione giuliana, sono il più gradito intervento per gli sportivi italiani. Come è nata la squadra sportiva, è noto. All’annuncio del Giro d’Italia una società triestina risorta dopo la liberazione, l’”internazionale”, fondata nel lontano 1904, lanciò l’idea di costituire un “gruppo triestino” per la corsa a tappe. Era un’idea, ma le idee rimarrebbero sterili senza i mezzi per realizzarle. Un gruppo triestino avrebbe risolto soltanto per metà il problema, occorreva una solidità d’impianto che soltanto un’industria avrebbe potuto offrire, anche perché la sua rappresentanza fosse degna del suo nome e delle sue insegne.

L’idea è stata accolta col più vivo interesse in tutte le Venezie,  ed ecco l’industriale che si offre per realizzarla. E’ Mario Dal Molin, uno sportivo, un italiano che vive ai piedi del Sacro Monte Grappa, un italiano che si infiamma al solo pronunciare il nome di Trieste, Dal Molin raccoglie l’idea, la feconda, la nutre e la completa: farà una squadra di tutti i corridori veneti, metterà alla testa delle maglie rosse alabardate il più rappresentativo corridore triestino, Giordano Cottur, costruirà una bicicletta che si chiamerà “La Triestina” e la squadra partirà non solo nel Giro d’Italia ma in tutte le corse più importanti”.  

Le foto in bianco e nero virate seppia dei campioni dell’epoca raccontano Cotturdi facce stravolte dal sole, i tubolari avvolti sulle spalle, le maglie di lana zavorrate davanti al petto schiena dai panini, gli occhi scavati dalla fatica.

Il momento culminante di quel Giro, non per la gara ma per quello che significò, fu domenica 30 giugno, nella tappa che portava la carovana da Rovigo a Trieste.

C’è molta tensione dietro questo evento già dalla vigilia. La città giuliana era nelle mire degli jugoslavi di Tito che non vedono di buon occhio l’arrivo del Giro d’Italia e soprattutto di quelle maglie rosse alabardate con il simbolo della città.

Alle porte di Trieste, raccontano le cronache dell’epoca, un gruppo di persone sospinto dai comunisti titini, lancia mazzi di fiori e sassi ai ciclisti. Fiori e pietre. Da un campo vicino partono due colpi di fucile. Due atleti restano a terra, feriti, colpiti dalle pietre. I militari americani e i poliziotti fermano la corsa, ma i ciclisti, superato l’iniziale momento di smarrimento, decidono di riprendere le bici e ripartire. Si decide, dopo l’incidente, che la tappa non conterà più ai fini della classifica generale. Ma il giro d’Italia, dell’Italia unita, arriverà a Trieste e, dopo un circuito cittadino, si concluderà come previsto all’ippodromo. Nella salitella che precede l’ippodromo il campione friulano Cottur scatta. Riesce a prendere qualche metro dal gruppo, quel tanto che basta per arrivare primo a Trieste con la maglia rossa e il simbolo dell’alabarda. Dietro di lui, vincono la volata, aiutati dal gruppo e dal vento di libertà, i compagni di squadra Bevilacqua e Menon. Tre uomini della Wilier Triestina ai primi tre posti nella tappa di Trieste. La gente impazzisce dalla gioia.


CotturtriesteNell’ippodromo con gli spalti strapieni come mai. E invade la pista. Dovranno passare altri otto anni prima che Trieste ritorni italiana ma l’arrivo di quelle maglie rosse anticipa il futuro e semina speranze. Cottur viene portato in trionfo dalla folla. Nella foto dopo l’arrivo si vedono, tra le facce entusiaste come nel giorno della Liberazione, il gonfalone di Trieste e uno striscione in bella mostra  con su scritto “W Trieste italiana”. Fu “un’emozione mai provata” racconterà per anni il campione friulano. Il momento più bello e più alto della sua carriera.

La Gazzetta dello Sport il giorno dopo titola così:“Il delirante abbraccio dei triestini accoglie il Giro d’Italia”.

Le prime righe dell’articolo di Bruno Roghi sono entrate nella storia del giornalismo sportivo e restano nella memoria dei triestini. Poesia.

“I giardini di Trieste non hanno più fiori./
Le campane di Trieste non hanno più suoni./
Le bandiere di Trieste non hanno più palpiti./Le labbra di Trieste non hanno più baci./ I fiori, i palpiti, i suoni, i baci sono stati tutti donati al Giro d’Italia.”

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