posted: 24/07/13 at 03:48 pm

TUTTE LE SALITE DEL MONDO #29 | LA MARMOTTE

By: Ufficio Marketing
Categoria: Storie
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Ogni anno ai primi di luglio sulle Alpi francesi Glandonsi corre la Marmotte, tra le più dure granfondo di ciclismo al mondo che simula una tappa del Tour degli anni Cinquanta, quelle di Coppi e Bartali. Quasi 200km di asfalto infinito e salite, salite con oltre 5.000 metri di dislivello da superare attraverso quattro colli Hors Catégorie del Tour de France, luoghi tempio delle due ruote, dove si è fatta la storia di questo sport: il Col du Glandon, il Telegraphe, il Galibier e l’Alpe d’Huez.

Quest’anno tra i 9mila iscritti, arrivati da oltre 54 nazioni, c’ero anch’io. Lo spirito che mi muove è puramente sportivo, in senso de coubertiano («l’importante non è vincere ma partecipare con spirito vincente»), cosa non del tutto scontata in tempi di doping, di ciclismo chimico e di polli cresciuti in batteria con il miraggio della prestazione a tutti i costi.  PartenzaLe cronache di questo bellissimo sport ne parlano purtroppo quasi tutti i giorni. E ne ho avuto la riprova la sera prima mentre cenavo in una brasserie dell’Alpe d’Huez. Nel tavolo vicino a me era seduto un ex professionista danese, di cui taccio il nome per carità di patria, con la moglie e il figlio adolescente («Ho fatto 4 Tour de France e un Giro d’Italia»). L’Epo? Cioè la dannata eritoproteina che falsa tutte le classifiche da 20 anni a questa parte?: «La prendevo anche io. La prendevano tutti quando correvo», ammette candidamente l’ex pro, senza vergogna, come  si trattasse di Coca Cola. Così era l’andazzo. Lo facevano tutti. Lo continuano a far tutti, anche tra gli amatori. Così, nel mio piccolo, quest’anno ho deciso di farle tutte queste salite, ma con le mie sole forze. A pane e vino. Non importa se arriverò tra i primi o ultimo. Così per sport. Ripenso a tutto questo, al significato dello sport, a pochi minuti dalla partenza…

Siamo novemila, davvero uno spaccato di mondo, accomunato dalla passione per la bici e la fatica. Accanto a me c’è’ un gruppo arrivato da New York. Hanno bici italiane. Paul mi chiede di fare una foto insieme a lui. PaulDavanti intravedo la maglia nera di un ciclista neozelandese. La moglie gli grida “go Kiwi”. Accanto a me, un gruppo di toscani conciona allegramente per stemperare la tensione. Tutto è pronto, si va. Bisogna fare molta attenzione nei primi km a procedere senza incornarsi con nessuno. Il primo tratto è in pianura. Il mio computer segna 38-40 km/h, troppo pensando a quello che ci aspetta. Mi metto a ruota, in gruppo, non voglio scaricare subito le batterie. Il primo colle da scalare è il Glandon. Ieri lo abbiamo percorso con il camper con il mio amico Ernesto che guidava. Il camper ha sbuffato e sofferto per inerpicarsi sulle erte e i tornanti del Col. In cima la strada si fa stretta, poco più di una mulattiera. Il mio amico all’arrivo era stanco: si era stancato a farla con il camper. Oggi al posto del motore ci sono io, la mia bici, i pedali e le gambe da far girare in un movimento continuo che va avanti già da un’ora. Attacchiamo la salita. E il gruppone subito si allunga, diventa un serpentone Glandonsalitae poi una fila indiana non appena la strada sale davvero.
Il Glandon ha una pendenza media dell’8% con il picco del 15% in un breve tratto. Poca cosa rispetto a certe salite italiane, Mortirolo, Gavia, Monte Grappa… Il problema – e me ne sto accorgendo a ogni metro che passa – è che queste salite francesi sono interminabili. Da questo versante la salita e’ lunga 25 chilometri. Venticinque km senza mollare mai la presa – che ne so – una piccola discesina o qualche tornante per prendere fiato nelle curve, fermare le gambe qualche istante. Zero. Si parte e si arriva su. Senza fermarsi mai. GlandoninfilaE questa è solo la prima delle 4 salite che dovrò fare oggi! Tengo duro. Mancano ancora 8 km alla vetta. Il peggio, se ricordo bene la strada intravista ieri con il camper, dovrebbe essere passato. Stringo i denti e vado avanti al mio passo. Badando che il cuore non vada fuori giri. E facendo attenzione a non scontrarmi con le ruote dei ciclisti che mi sono davanti e di fianco: quelli a destra che vanno più piano di me e quelli a sinistra che passano più veloci. Ci sono tante cose da considerare, tante variabili in una gara ciclistica, provare per credere. Il ciclista è un acrobata su un filo. Si muove sopra due ruote sottilissime, in un equilibrio instabile e dinamico, come in fondo, è instabile e dinamica la vita. Il percorso che c’è per tutti, dalla partenza a un arrivo. Qualsiasi esso sia.

Da questo lato la salita è un lungo e faticoso crescendo. Negli ultimi 2 km la pendenza si assesta costantemente oltre il 10 per cento. La vetta si avvicina. Vedo lì in alto, dopo la diga e il rifugio,  la fila delle bici che continua come un lungo filo. Si perde alla vista all’ultima curva e poi riappare: finalmente una marea umana e di biciclette mi accoglie nel piazzale del Col du Glandon, quota 1.924 metri, dove c’è il primo rifornimento. Non si riesce a proseguire anche volendo, dall’enorme massa di ciclisti in sosta. Bisogna fermarsi per forza. Mangio qualcosa e soprattutto bevo. Sono già le 11. Pedalo da tre ore. E il sole comincia a fare sentire la sua presenza.

Il Col du Glandon fu scalato la prima volta nel Tour del 1947. Il primo in cima fu un polacco: Edouard Klabinski. Il belga Lucien Van Impe lo ha scalato per primo in tre Tour de France. Richard Virenque due volte, nel 1994 e nel ’97. Nel tour del 2001 su questa salita Lance Armstrong, il texano miraculé, sopravvissuto al cancro, e già vincitore di due Tour (al veleno Epo) su questa salita ingannò Ian Ullrich, il gigante rosso cresciuto a doping nella Germania dell’Est. I compagni di squadra del tedesco salivano a un ritmo indiavolato. Armstrong restò dietro al gruppo, sembrava lì lì per mollare. Galibier=salitaL’americano fece finta di non averne più, arrivò fino ai piedi dell’Alpe d’Huez dove scattò facendo restare con un palmo di naso il tedesco e dandogli diversi minuti di distacco.

Mancano ancora tre colli da scalare e circa 130 km da percorrere con le mie gambe. Mi faccio largo tra la marea umana e le bici che occupano il piazzale e cerco di riprendere appena posso la strada. La discesa è molto ripida e lunga con il primo tratto strettissimo, senza parapetti ai lati della strada. Non si può sbagliare traiettoria: si finisce sotto. Cerco di far attenzione e di non scendere a tutta. Dopo un’altra trentina di km e lunghi rettilinei della strada a valle arrivo a Saint-Jean-de-Maurienne, il paese dove comincia la salita del Col du Telegraphe e poi del Galibier. Qui è arrivato il Giro d’Italia quest’anno. Ma nevicava. E faceva un freddo cane. La tappa è stata accorciata prima della cima che era impraticabile. Oggi le cose vanno diversamente. Il sole scotta forte e la cosa che fa più male, oltre alla salita, è il caldo. Ogni volta che vedo un angolo d’ombra di un albero lungo l’asfalto che ribolle mi sposto sulla sinistra della sede stradale per cercare un attimo, effimero, di refrigerio. In cima al Telegraphe speravo ci fosse un rifornimento. Invece niente. Solo acqua. Comincio ad avere fame mentre riprendo la strada, la discesa fino a Valloire. Per arrivare al rifornimento bisogna salire fino al Plan Lachat con questo sole spaccatesta e la luce rossa della riserva che si è accesa dentro me.

Sono le 3 del pomeriggio. GalibierprimastrdaHo una fame boia. E sete, tanta sete. E c’è ancora il Col du Galbier da conquistare, fino su in alto, lungo la strada che sale sinuosa lungo 18,1 km (assieme al Telegraphe sono 35,5 km). Una salita che non finisce mai, con un dislivello, in verticale, di 1.241 metri. Continuo a pedalare come un moto perpetuo, concentrandomi sullo sforzo, con la voglia di arrivare in fondo. Ma comincio a sentire che qualcosa non va. Mi sento svuotato e stanco di una stanchezza antica, come un pugile suonato o un cane bastonato.

Galibier deriva dal provenzale Galaubié, burrone. RicstravoltoRacconta Henri Ménabréa nel suo Histoire de la Savoie, che le truppe spagnole, durante le guerra di successione austriaca, marciarono sul Galibier, tra la Francia e la Savoia, incontro a quelle che speravano essere le nuove conquiste. Dopo avere attraversato il passo erano così affamate e assetate che in un’ora «la popolazione di Valloire vide sparire tutte le proprie provviste e sviluppò un odio per gli spagnoli di cui ancor oggi si riscontrano le tracce». Mi sento affamato e assetato anche io come i soldati spagnoli. Capisco che cosa devono aver provato.

Nel corso degli anni il Galibier ha scoraggiato molti ciclisti, nel 1974 abbandonò Bernard Thévenet, due volte vincitore del Tour de France. «Il Galibier è un colle mitico, che ha sempre fatto paura a tutti i ciclisti perché è molto lungo, è molto duro ed è stato sempre selettivo», raccontò il campione francese. Galibiertortuoso
Con il Galibier e i suoi 2.642 metri inizia la sfida delle Alpi alla Grande Boucle. Il Tour è passato da qui 59 volte durante la sua lunga storia. La prima il 10 luglio 1911. A volerlo fu il fondatore del Tour de France, Henri Desgrange, a cui è dedicato un monumento in cima. Il primo a percorrerlo senza scendere dalla bici fu Émile Georget: impiegò 2 ore e 38 minuti. Gustave Garrigou, vincitore del Tour quell’anno definì «banditi» gli organizzatori per la deviazione sulle Alpi. «Di fronte a questo gigante non resta che togliersi il cappello e inchinarsi», diceva Desgrange a proposito di questa montagna che amava. CoppibartaliNel 1952 su questa salita avvenne il famoso episodio della borraccia: fu Gino Bartali a passarla a Fausto Coppi o viceversa? Misteri italiani. Qui Pantani attacco Ullrich. Attaccò sul Plan Lachat, al ristoro dove oggi ho mangiato pane e formaggio francese. In quel preciso punto il Pirata, anno di grazia 1998, vinse il Tour. Aveva un distacco di oltre 3 minuti dal tedesco che era in maglia gialla. Scattò. Uno scatto dei suoi. Le mani in basso sul manubrio, nella posizione dello sprint dei velocisti. La testa bassa, la smorfia della fatica che sembrava un sorriso… Gli scatti di Pantani, del primo Pantani, erano diventati una sorta di rito orgiastico di massa, come quando segna la nazionale in una finale dei mondiali. Si fermava l’Italia. Pantani scattò e percorse da solo i 47 km fino all’arrivo all’Alpe d’Huez, tra due ali di folla, sfidando il gelo, il mondo, la vita, il viso gonfio: «Salivo come un cieco, in mezzo a un mare di folla che si apriva davanti a me» raccontò.  La maglia gialla Ullrich arrivò al traguardo con 9 minuti di ritardo. Un momumento in vetro dedicato al pirata ricorda quel giorno, dopo una baita, poco prima della vetta.

Il Galibier è agonia, sofferenza pura, dolore, voglia di mollare e mal di gambe.

Nella parte alta il paesaggio diventa lunare con il cuneo roccioso del Gran Galibier e i suoi 3.228 metri. La strada si inerpica a zig e zag, come nei disegni dei bambini. Fa impressione da sotto vedere il punto dove dovrò arrivare. Mi accorgo che qualcosa non va, la fatica per salire su che non è solo mia ma è una fatica spietata, quando comincio a vedere ai bordi della strada dei giovani ciclisti, all’apparenza prestanti, che abbandonata la bici sul bordo della strada, si allungano sul prato per cercare un po’ di respirare e riprendersi. Io continuo a pedalare ma l’ultimo tratto, tra pareti di neve, fa veramente impressione e sembra non terminare mai. C’è qualcuno che sale a piedi, spingendo la bici con le mani. Continuo a pedalare piano ora cercando dentro di me i residui di forza per arrivare in cima. Quando mancheranno ancora 55 km all’arrivo e l’Alpe d’Huez da scalare. I professionisti lo sanno bene. Dicono che questa è la salita più dura tra quelle che si fanno sempre al Tour per la lunghezza, l’altezza e la durezza del passo. Troppo impegnativa per dare tutto anche perché di solito, come oggi, precede un’altra sfida importante.

Le salite quando le fai… Quando ti ci trovi d fronte per la prima volta, sui pedali come nella vita, non sai mai come saranno. Come farai a conquistarle, a superarle. Non è solo questione di dati tecnici: km, altimetrie e cose del genere. Può aiutarti il racconto di chi ci è già passato. Tutto quello che volete. Ma a un certo punto, per quanto tu possa essere preparato nel fisico e nella mente, te la devi giocare. Da solo. Tu e la bestia nera di questo strappo dannatamente duro da superare. Tu e i tuoi limiti fisici. Tu e la stanchezza. Tu e il peso. Tu che vorresti essere Pantani ma somigli a un lottatore di Sumo. Insomma: poche ciance, è arrivato il momento di pedalare e mentre continuo a salire, di curva in curva, mi accorgo che i km di questo dannato passo diventano lunghissimi, eterni, sembrano non passare mai. La mia stanchezza diventa dolore puro. Vado avanti non so come, e non sono neanche a metà della salita. Scendo dalla bici e continuo a piedi dieci, venti, 50 metri fino a quando non spiana (si fa per dire) e riesco a risalire sulla sella.
È incredibile davvero provare quanta forza c’è dentro ognuno di noi. Quando non ce la fai più… scatta qualcosa. E vai. Non so spiegarlo. Non senti più niente. Fatica. Dolore. Vai avanti. Continui nel tuo sforzo infinito. Solo cuore nel motore che vince sulla testa e sui segnali del corpo che a ogni metro grida di mollare. Non mollo.
Updick
La salita che porta all’Alpe d’Huez è lunga 13,1 km con un dilivello di 1073 metri, una pendenza media dell’8,2% e massima del 12 per cento. Con i suoi 21 tornanti, le curve larghe e il muretto in cemento sui bordi della strada, è forse la più famosa del ciclismo moderno. Il Tour ci arrivò per la prima volta nel 1952. Vinse Fausto Coppi. Ma poi per anni non ci arrivò più. Fino al 1976. È diventata la montagna degli olandesi che qui hanno vinto otto delle successive tredici tappe sull’Alpe d’Huez, divenuta un appuntamento annuale del Tour: Hennie Kuiper, Joop Zoetemelk, e Michael Boogerd, detto Boogie, eterno secondo. Nel giorno del Tour la strada non si vede più dalla folla. Si calcola che lungo i suoi tornanti ci siano quel giorno mezzo milione di persone. Coppi la saliva in 45 minuti . Hinault e Lemond in 35 minuti.Il primo a scendere sotto i 40 minuti è stato Bugno nel 1991. E molti dicono che quello è stato l’anno in cui l’Epo è diventato allaprotata di tutti. Pantani ci mise 22 minuti record ancora imbattuto), seguito da Armstrong che ci mise 25 secondi in più. I puristi del pedale storcono il naso quando si parla dell’Alpe d’Huez. Ricordano i tapponi di un tempo in cui i corridori arrivano da soli. L’Alpe d’Huez è la salita moderna per eccellenza, breve e micidiale. Ideale per le esigenze della tv, meno per la letteratura epica di uno sport che ha perso lungo la strada costellata di soldi e sponsor, la sua anima. FermisulmurettoAnima che però non hanno perso i 300 ciclisti amatori che ogni giorno dell’anno, durante la bella stagione salgono su questa salita. E anima che non hanno perso neanche i novemila della Marmotte che oggi, come me, sognano di terminare la loro impresa salendo sull’Alpe. Il primo tratto è il più duro. Si viene da 40 km di discese e pianure e saliscendi con le forze che non ci sono più. La voglia di mollare che comanda sulla voglia di farcela. Io continuo. Lunghi tornanti come in una specie di lungo rosario da sgranare, pedalata dopo pedalata. A ogni tornante però aumenta il numero di persone che incontro sedute sui muretti stravolte dalla fatica di questa lunga interminabile giornata. Sembriamo tanti fantasmi senza energia. Non so come ma vado avanti. In qualche tratto mollo e scendo anch’io dalla bici. Ma piuttosto che fermarmi continuo a passo a camminare per qualche centinaio dimetri. E poi riprendo. Mi fermo e riprendo. RicarrivoMi fermo e riprendo. E i km interminabili scendono da 12 a 10 e poi a 8, 6. Sto bene,. I battiti del mio cuore sono ok a 130-135 pulsazioni al minuto. E’ che non ho più forza per muovere le gambe diventate ora come marmo. Zero. Mi do obiettivi intermedi. Avanti fino a li e poi fino a quell’altro cartello. E lentamente, come sgranando un rosario iterminabile arrivo in cima. Svuotato come mai. Con la certezza che non ci tornerò il prossimo anno, e la felicità lieve, leggera come una piuma, di essere riuscito ad arrivare in fondo, vincendo i miei limiti. Senza barare. Senza aiuti. Con le mie sole forze. Arrivofinita

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