posted: 02/09/13 at 02:35 pm

TUTTE LE SALITE DEL MONDO #32 | OETZTALLER MALEDETTA. OVVERO, C’è SEMPRE UN LIETOFINE. BASTA SAPERLO VEDERE.

By: Ufficio Marketing
Categoria: Storie
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Piove. Piove forte. E ha piovuto tutta la notte, come un pianto senza fine. La temperatura è scesa a 12 gradi. Sono le 5.40. Prima ancora dell’alba. E tra un’ora si parte. La Oetzaler, 238 km sui pedali da percorrere in un anello sulle alpi tirolesi, tra Austria e Italia, salendo il passo del Kuhtal, il Brennero, il passo del Giovo e il temibile Rombo. La granfondo più tosta di tutte, per km e salite, in Europa di sicuro e forse nel mondo.

Ho aspettato tanto questo momento, e l’ho preparato lungo le strade e le salite d’Italia e di Francia per mesi e mesi. E ora ci siamo. Fa un freddo boia. Le nuvole basse, grigie, coprono tutto e tutte le sensazioni che si possono provare alla partenza di una gara come questa. Sarà dura, lo so e lo sapevo già. E io sono pronto. Ma sarà ancora più dura con questa pioggia battente.

Un sms dell’organizzazione arrivato nella notte sul mio telefonino e, credo, sui telefonini di tutti i 4mila iscritti, in un incerto italiano, parlava comunque chiaro: “Benvenuto a Solden! L’Oetztaler Radmarathon ti augura buon successo. Partenza alle 6.45. Che il tuo sogno si avveri! Previsioni meteo per domenica: probabile pioggia. 0 gradi a 3000 metri. Il comitato prega di portare un abbigliamento adatto. Auguriamo a tutti una buona gara!”. Buona gara, già. Due ragazzi toscani, nel parcheggio accanto alla partenza, mi raccontano che hanno già fatto questa maratona in bici lo scorso anno, ma oggi sono spaventati dal tempo. Lo siamo tutti. Si spalmano della crema sulle gambe per cercare di scaldarsi. Ma fa freddo e siamo tutti su una nave che prende acqua, sotto lo striscione dell’arrivo, sotto una pioggia che continua a battere forte. Come sarà? Sarà dura e bagnata. Poco tempo per pensare, ora. Siamo forse meno dei quattromila iscritti. Molti, come il mio amico Maurizio Manara, il mitico Missile, pur preparati e iscritti, non si sono presentati alla partenza: “Così, con questo tempo – mi dice sconsolato al telefono Missile – e’ troppo dura. Mi piange il cuore. Ma non me la sento”… Come mi sento io, sotto la pioggia? Avete presente il film “La Marcia dei pinguini”… C’è una scena in cui le femmine lasciano le uova da covare al gruppo dei maschi per cominciare un lungo viaggio in cerca di cibo. Assieme ad altre migliaia di ciclisti bagnati e spauriti come me mi sento come quel branco di pinguini maschi costretti a stare fermi in gruppo contro la tempesta polare, contro il tempo, contro tutto.

Si parte. E sono già inzuppato di acqua dalla testa ai piedi. E’ difficile vedere la strada davanti con gli schizzi d’acqua che ti arrivano da tutte le parti. Ed e’ difficile tenere la ruota perché gli schizzi aumentano proporzionalmente ogni volta che provi ad avvicinarti a qualcuno. Avanzi senza vedere niente. Gli occhi stretti. In una beata, euforica, incoscienza.

Il primo tratto della gara è un lungo falsopianoin discesa di 30-40 km fino al paese di Otz dove comincia la salita che ci porterà al primo passo, il Kuhtal, il più tosto di tutti, mi han detto i bene informati in termini di altimetria: 18,5 km di salite da scalare, dagli 820 metri della valle a quota 2.020 metri del passo…
Poco tempo per pensare.  C’è da pensare con i piedi. Con i pedali. Continuo a farlo, in un movimento ritmico, sempre uguale, sotto la pioggia. Ogni tanto, pulendomi gli occhiali, riesco a vedere la velocità sul computerino di bordo, 38, 42, 40, 36 km all’ora… Non male considerando le condizioni del terreno.Preferisco non rischiare in discesa e non mi avvicino troppo a chi mi è davanti, freno prima del tempo, partendo lungo, e non tirando mai le due leve a tutta. Oggi è davvero difficile guidare la bici… Meglio non rischiare, in ogni caso… Così non mi preoccupo di quei matti che passano a sinistra e scendono a tutta velocità lungo i tratti più ripidi di questa lunga discesa verso Otz. Io vado al mio passo. Ed è già tanto con questo tempo. E’ difficile pedalare. I piedi sono tutti bagnati. Nonostante il paio di copri scarpe invernali che ho addosso… Le mani vanno meglio: ho un paio di guanti in pile molto caldi e ancora relativamente asciutti. Il corpo, grazie a un paio di indumenti tecnici da sci alpinismo, una maglia intima e una giacca in Goretex,  della Dynafit che avevo usato allaOetzi marathon, è ancora caldo. Chissà per quanto.

Finalmente comincia la salita. La salita vuol dire sfida. Vuol dire fatica. Ma, in una giornata come questa, vuole dire anche che ci si scalda pedalando… E l’acqua con il sudore non la senti più, o la senti meno. Così è. Salgo con regolarità a 10-12km all’ora. In alcuni tratti questa salita è davvero una mulattiera con punti al 18%. Il Garmin nel frattempo, forse per la pioggia, ha cominciato ad andare per conto suo, mi dice mentre salgo che c’è una pendenza negativa – cioè che sono in discesa – del meno 7-8% (!!!). Non ci bado. Salgo. Pedalo. E basta. Ogni tanto vedo qualcuno, più di uno, che rinuncia. E gira la bici a valle. Torna indietro.

Non è la fatica ma la pioggia che a questo punto, dopo un’ora e mezza e una 40ina di km percorsi, ti è entrata nel cervello, nelle ossa.Non so come. Ma vado ancora. Riesco salendo anche a scambiare due chiacchiere con un ragazzo di Pistoia che ha una Wilier Centouno come la mia. Noi italiani siamo una minoranza. I partecipanti a questa gara sono perlopiù tedeschi o austriaci. Testa bassa e pedalare: “Jawohl mein Führer!

Chiedono di iscriversi in 21mila, come alla Maratona delle dolomiti, ma ne partono al massimo 3-4mila. Per ragioni di sicurezza non ne accettano di più. Alla Marmotte eravamo in 9mila sulle strade.  Oggi qui siamo molti meno. E con il passare dei km aumenta in modo impressionante il nr di quelli che si ritirano. Tutti in fila. Uno dietro l’altro. L’esercito tedesco alla disfatta dopo la campagna di Russia… Uno spettacolo così.

Io continuo a pedalare, mi sento bene, nonostante tutto, e non penso che la cosa possa toccare anche me…  In alcuni punti faccio fatica a trovare il ritmo giusto perché mi trovo davanti troppe ruote che rallentano e ho paura di cadere: con l’acqua e i freni che non frenano bene e i piedi attaccati non è facile muoversi tra corpi e bici. Questione di centimetri. Sfida da acrobati da circo, più che sforzo atletico. Meglio non strafare, insomma.

L’ultimo tratto prima del rifornimento sul passo del Kuhtal sembra uno scherzo. Avete presente un muro? Bene, sono all’inizio di un muro e vedo in alto il punto dove devo arrivare… Inutile chiedersi come fare. Testa bassa e pedalare… Con un po’ di sollievo, finalmente, arrivo al passo e al rifornimento. Guadagno in fretta un posticino nel lungo tavolone affollato di ciclisti che distribuisce thè e bevande, banane e biscotti. Il tempo di riempire le borracce e riparto subito. Prima della discesa mi fermo un attimo da un lato per indossare un cappellino sotto il casco per difendere le orecchie dal freddo. Guardo la temperatura. Per la prima volta da quando sono partito ho paura.

Il termometro del mio Garmin misura 1,4 gradi (1,4°?!!!), il 25 agosto a 2020 metri di quota. Io sono bagnato dalla testa ai piedi come il pulcino Calimero. Tolgo gli occhiali, tutti bagnati, tanto è inutile: non riesco ad asciugarli. E riprendo subito, saranno passati due minuti, a pedalare verso la prossima tappa. Dal Kuhtal comincia una lunga discesa fino a Innsbruck, da 2020 si passa a 680 metri. In altre giornate, con il sole di agosto, sarebbe stato un sollievo dopo la salita, scendere a 60 all’ora e anche più, con il vento nei capelli e il caldo sulla pelle e nel cuore. Oggi è uno strazio. Davvero. Me ne accorgo subito vedendo altri compagni vicino a me che avanzano piano piano, in discesa, come lumache bagnate. Due cicliste tedesche davanti a me si fermano. Molti già dal passo non sono ripartiti. Si sono avvolti nelle copertine dorate, quelle in plastica, per cercare di scaldarsi e sono stati soccorsi dai volontari dell’organizzazione. Persino quelli che stavano lì sotto gli ombrelli e le giacche a vento per distribuire il thè o i sali ai ciclisti in braghe e magliette sembravano morti dal freddo.

Mi avvicino a un ciclista che scende come me, intirrizzito. E’ un danese. Ha il viso color rosso paonazzo. Chissà di che colore sarà il mio. Mi dice che molla: “It’s too cold. Too hard for me”. E’ un attimo. Per la prima volta da quando sono partito mi rendo conto che anche io sono in grossa difficoltà. Faccio fatica ad avanzare, pure se sono in discesa. Non riesco più a premere con le mani le leve dei freni. Mi fermo una prima volta per togliermi i guanti in pile, oramai zuppi come cotone idrofilo. Mi sembra di sentire meno freddo a mani nude. Ma non riesco più a pigiare sui freni. In pochi minuti questa gara è diventata un incubo, da festa a incubo, da una prova sportiva a una gara di sopravvivenza. Sì ci tengo, certo, a finire, a finire anche questa ultima mia “impresa” dell’anno. Così però è davvero troppo. Ha ragione il danese. Troppo tosto continuare. Non per la fatica: non sono stanco, sto bene in quel senso, non per le salite, non per il tempo massimo e per i cancelli orari, sono ancora perfettamente in gara, ma per questo cavolo di freddo che anche a me è entrato fino al cervello. Non ho mai sentito così freddo vi assicuro…

Mi fermo di nuovo a bordo strada. La discesa sembra non finire mai. Ho i brividi e tremo.C’è un camion dei pompieri. Facciamola finita. Fatemi salire dannazione. Ma è già pieno di gente, di ciclisti che si sono fermati. non c’è più posto. Un vigile di l fuoco mi consiglia di continuare ancora per due-tre km fino alla stazione dei pompieri del paese vicino, dal nome impronunciabile (non so se per il freddo, per la mia lucidità messa alla prova in questo momento, o per il mio stentato tedesco…) Continuo a scendere. Cavolo: forse era quella la stazione dei pompieri, l’ho passata… E ora che faccio? Continuo ancora in mezzo alla montagna. E mi accorgo che tremo. Tremo tutto. Ancora una curva, un rettilineo. Basta. Stop. Non ce la faccio più.

Il resto della mia Otztaler sembra un film. Due volontari della Protezione civile mi portano in una casa, dentro una Gasthaus. Le mie mani tremano come se avessi l’alzheimer. Mi accolgono due signori, marito e moglie e il loro cane. Lei mi stringe le mani in un asciugamano e prova a scaldarmi. Il cane mi lecca le gambe bagnate. Ha capito anche lui che ho un principio di assideramento…. Continuo a tremare come un fuscello. Non riesco a parlare. Dentro la casa c’è un ciclista che si è fermato prima di me. E’ giovane e atletico.  Anche lui stoppato dal freddo e dalla pioggia che continua a scende incessante. Provo a dire alla signora che devo avvisare mia moglie. Lei mi riprende. Mi dice che devo scaldarmi, prima. Mi porta dentro il bagno della loro casa. Il marito mi porge dei vestiti asciutti. Mi intima in inglese una frase così: “Fai una doccia calda e cambiati con della roba asciutta. Dopo chiamerai tua moglie”. Ha ragione.

Mi spoglio. Sono bagnato dai piedi ai capelli. Mi butto sotto la doccia, e giro il miscelatore verso la posizione massima dell’acqua calda. Per scaldrmi le mani, la testa. Non so perché ma sotto l’acqua calda il mio corpo ha una strana reazione e io ho una bruttissima sensazione: i piedi che prima non mi sembrava avessero dei problemi sembrano ora di ghiaccio con il caldo. Mi fanno male. Insisto e resto sotto l’acqua bollente per una decina di minuti, interminabili, fino a quando quella sensazione di assenza, di carne staccata dal mio corpo, non passa.. Mi vesto e nella sala provo a bere del thè caldo. Fuori, sulla strada, continua a piovere e i ciclisti continuano a scendere in bici, come fantasmi. Ora va meglio. Provo a chiamare mia moglie, le chiedo di venirmi a riprendere in auto, ma tremo ancora nella voce. Lei, mi dirà dopo, che non mi ha mai sentito così.

Con il passare dei minuti la situazione migliora grazie al tepore di questa pensione e soprattutto alla calda accoglienza di questa coppia di austriaci: hanno aperto la loro casa uno sconosciuto italiano, lo hanno salvato dal freddo, gli hanno dato abiti asciutti e gli hanno fatto usare la loro doccia di casa, come se mi conoscessero da sempre… Viva la pensione Adlerhorst.

Ho perso la cognizione del tempo. Mentre mi scaldo, seduto al tavolo della sala dove gli ospiti di questa pensione fano colazione, Anita, la padrona di casa, mi mostra un album fotografico di quando era più giovane. Lei ha corso in bici. Era una campionessa del pedale alla fine degli anni Ottanta, poco prima di Maria Canins, con cui ha duellato in qualche gara prima che diventasse Maria Canins. Ci sono le foto di Anita che fa ciclocross, tra il fango e le tavole di legno, saltando con la bici gli ostacoli. Ci sono le foto di Anita che vince una gara da sola, staccando tutte, braccia alzate, in Francia, lei austriaca tosta di montagna, terra di sci e di ghiacciai, nella lontana Francia, terra di ciclismo e vini rossi. “Dovevano fermarla la gara oggi – dice, dall’alto della sua esperienza – Non si può salire sui 4 passi con questo tempo. Tutti quelli che sono qui si erano preparati. Non è possibile che si ritirino la metà per il freddo”. Anita capisce la sofferenza dei ciclisti, la solitudine dei ciclisti, lei ciclista per prima. Nella sfortuna della gara e di questo freddo micidiale che mi ha trasformato da provetto atleta in un semi-cadavere ambulante sono stato comun que fortunato, perché non sono rimasto in strada, ma ho trovato una casa e delle persone che mi hanno accolto e scaldato con il loro affetto. In questa gara, amici, non c’è un lieto fine. Il finale non è quello che avrei voluto raccontarvi: mi sono ritirato, c’è poco da dire. E chissà per quanto tempo, durante il lungo inverno, ripenserò al momento in cui, barcollante, in  discesa, suonato come un pugile al tappeto, ho messo i piedi per terra, al rimorso o forse rimpianto, per non essere arrivato in fondo anche a questa sfida, questa ultima salita.

La sconfitta è una lezione di umiltà. Ci obbliga a ricordare la fragilità estrema della condizione umana. E’ anche essa una salita da fare, in certo senso interiormente, una cosa da accettare, anche se difficile da digerire.

Un lieto fine, inaspettato, però, c’è stato. La Oetztaler con questo freddo non era più una gara  sportiva, ma si era trasformata, per me per molti, in una gara di sopravvivenza. Ho preferito mollare. Le mani tremanti, bagnato fradicio, dopo tre ore sotto la pioggia battente, mista a neve in alto al passo, con 1,3 gradi di temperatura, ho scelto. Ho fatto la mia scelta, giusta o sbagliata che sia. E’ una salita da fare la sconfitta, difficile da accettare, ma oggi è andata così. Il prossimo anno alla Oetztaler ci tornerò magari con una tuta da sci e – come mi ha consigliato il mio amico Max Cellino che l’ha finita, insieme a circa 2mila ciclista, alla fine di questa giornata terribile, epica – con un paio di guanti da sub: “Gli unici che a zero gradi e con l’acqua che scende, ti tengono le mani isolate dal freddo”… Tuttavia un lieto fine, inaspettato c’è stato. Grazie ad Anita e a suo marito, ho conosciuto il lato più bello e accogliente di questo popolo austriaco. Il cuore di questa gente che sembra fredda, per un fatto climatico, solo fuori. Non ho finito la mia gara ma ho sperimentato sulla mia pelle una  sensazione di estrema libertà. forse ancora più bella: il mondo una famiglia. La mia famiglia.

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