posted: 11/03/13 at 09:03 am

TUTTE LE SALITE DEL MONDO #3 | TRENTA KILOMETRI

By: Ufficio Marketing
Categoria: Storie
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Un nuovo post di Riccardo Barlaam per Tutte le salite del mondo.
E chi è Riccardo Barlaam? Scoprilo qui.

“Dove può ancora condurmi il mio cammino? Vada come vuole, io sono contento di seguirlo”. (Siddartha, Hermann Hesse).

CassinettaQuesta mattina non avevo proprio voglia di uscire a correre. Ma dovevo. Tra poco più di una settimana, a quest’ora, sarò alla partenza della maratona di Barcellona. E davanti a 42 chilometri di corsa non si può bluffare. A piedi. Un passo dopo l’altro.  Fa freddo. E piove, una pioggia fitta e piccola, molto fastidiosa. Il Naviglio Grande è avvolto nella nebbia. I fumi che salgono dall’acqua avvolgono il paesaggio in un’atmosfera irreale, da sogno, fuori dal tempo. Comincio a correre lungo la pista ciclabile che costeggia il lungo canale d’acqua che collega il Lago Maggiore a Milano, quasi asciutto in questo periodo dell’anno.  Non incontro nessuno. Sono solo, avvolto dalla nebbia. Con me stesso, i miei pensieri e la corsa. L’obiettivo di oggi? Una decina di chilometri da fare di buon passo, in meno di un’ora, “tanto per stare sulle gambe”, come dice il mio collega Nicola Dentice, maratoneta nella vita e con le scarpe, che sarà con me, assieme ad altri amici, a Barcellona. Ho sempre corso d’istinto, seguendo solo il mio orologio interiore. Non so come spiegarlo. Ma ascoltando il mio corpo, i passi, la fatica, il ritmo del cuore riesco ad avere esattamente la percezione della distanza percorsa e del tempo che passa.

In questo modo ho portato a termine tutte le mie maratone. Con il passare degli anni, entrato ormai anagraficamente nella categoria age-group, tradotto: anziani (fa un altro effetto, che dite?) ho deciso di usare un cardio- frequenzimetro sia quando corro che quando vado in bici.  Bisognerebbe usarlo anche nel nuoto di distanza considerando che lo scorso anno durante il mezzo Ironman a Pescara, mentre nuotavo con altri 800 e passa triathleti, un ragazzo di 38 anni ha avuto un infarto in acqua. È stato salvato da un cane dei vigili del fuoco: ora sta bene.

Questo episodio ha rafforzato in me la convinzione che passati i 40 conviene sempre controllare il proprio motore durante gli sforzi prolungati per evitare di andare fuori giri. Rischiare la pelle per arrivare una manciata di minuti prima. Non è proprio il mio film.

Il medico sportivo, qualche settimana fa, quando mi ha rilasciato il nuovo certificato di idoneità allo sport dopo una prova sotto sforzo, sapendo delle mie sfide “pazze”, mi ha invitato a non superare mai i valori di soglia massima del cuore: “Così arrivi prima, ma lo sport rischia di farti male più che bene”, mi ha detto. Io lo faccio già da un po’. Sono le uniche accortezze che ho durante gli allenamenti e le gare più dure, anche l’Ironman, oltre a curare l’alimentazione per dare l’energia giusta al motore (lo scorso anno avevo 280 di colesterolo cattivo: sono sceso a 180 facendo un po’ di attenzione a quello che mangio).

Anche oggi uso il cardio-frenquenzimetro per correre. Il mio Garmin mi dice che il cuore gira a 155-160 battiti al minuto. La soglia è 175. Quindi sto andando più o meno al 70-80% della mia velocità massima, per così dire.  Se riuscissi a tenere questo ritmo per tre ore concluderei la maratona con un tempo record. Ma non andrà così. Tuttavia vi assicuro che avere un riferimento costante dei propri parametri durante le prove e la fatica massima (come una salita affrontata con un ritmo troppo elevato) ti permette di rallentare per evitare sorprese e non rischiare di farsi male.

Sulla via del ritorno, più o meno a 6-7 km, dopo 35-40 minuti di corsa, ho cominciato a sentire una fitta all’interno della coscia destra, vicino all’apice del femore. Un chiodo che penetra. Come se qualcosa si stesse consumando.

Il dolore è sempre in agguato per i maratoneti. Fa parte del gioco. E con il tempo si impara a conviverci. Ci sono giorni che ho male al ginocchio. Altre volte sento tirare i muscoli e le gambe. È incredibile la rapidità con la quale i segnali del corpo arrivano al cervello durante gli sforzi prolungati. Ma con la stessa facilità con cui vengono trasmessi, non so come, a un certo punto passano.

Piove ancora. E l’umidità si è attaccata sul cappello e sui guanti neri avvolti completamente da piccolissime stille di acqua bianca densa come vapore. Nell’ultimo tratto provo ad accelerare un po’. Il dolore non lo sento più, forse c’è, forse no: semplicemente non ci bado. Ascolto il ritmo del cuore che diventa più veloce e faccio attenzione, a correre lieve, agile, cercando di limitare il più possibile l’attrito con il terreno, sfidando la forza di gravità a ogni movimento del piede, del tallone. Senza alzare troppo le gambe. Il Garmin mi dice che sto andando a una velocità sostenuta, per me. Faccio solo attenzione ai battiti, che non salgano troppo: si muovono tra i 162 e i 165. Vedo il ponte di Cassinetta di Lugagnano, il paese dove vivo, la perla del Naviglio, un mondo intatto a 25 km da Milano. Il ponte vuol dire l’ultima piccolissima salitella e finalmente la fontana, l’arrivo, dopo quasi un’ora di corsa.

Mentre bevo, mi accorgo che il mio corpo emana una scia di vapore, il caldo del sudore che si staglia nella nebbia come se fossi radioattivo. Mi fanno male le gambe, ma mi sento bene. La cosa più importante da qui a domenica prossima sarà riposare per arrivare alla partenza della maratona con la voglia di correre. Il piacere di farlo. Perché non diventi una condanna.

“Dove può ancora condurmi il mio cammino? Vada come vuole, io sono contento di seguirlo”.

Sono sicuro che ce la farò ad arrivare in fondo. Perché voglio arrivarci. L’ultimo scoglio da passare prima di una gara sui 42 km è quello del lungo, due-tre settimane prima. Un allenamento di una trentina di chilometri. Se si riesce a passare indenni questa prova vuole dire che si è – più o meno – pronti.

Funziona così la maratona, dalla mia esperienza. Fino ai trenta si va, in qualche modo. Poi tutti, dai kenyani all’ultimo dei tapascioni negli ultimi 12 km hanno un momento in cui devono superare il limite. Il muro. Arriva a tutti. È un fatto fisico ma anche interiore, di forza di volontà, di cuore. Quando arriva la sensazione di non farcela è il momento di guardarsi dentro, superare il limite e continuare. È come un gioco. Anche un po’ misterioso perché scatena delle dinamiche interne che non saprei spiegarvi. Fatto sta che una volta superato quel muro, l’arrivo di qualsiasi traguardo diventa quasi una discesa, piena di felicità. Ci si sente svuotati, appagati, forti, puri, semplici. Io dico sempre – generalizzando un po’, certo – che un podista non può essere un disgraziato. Per via di questo processo interiore che ti porta all’arrivo e con cui tutti devono fare i conti. Nel triathlon succede lo stesso. E anche nel ciclismo. Soprattutto nelle gare più lunghe. E la fatica per una strana simbiosi chimica ma anche di sensazioni, avvicina, accomuna, ti fa sentire anche il peso dei passi dell’altro che non conosci e che arriva ciondolando all’arrivo accanto a te.

Domenica scorsa abbiamo provato a fare il nostro lungo percorrendo l’anello che gira attorno al Lago di Varese. Un tempo un posto inquinato, ora tornato a essere un Lago, con cigni, canoe, gente, famigliole che vanno in bici, molti podisti, alianti che planano senza far rumore nel campo di volo a vela lungo le sponde del Lago. Il giro è di 28 km.

Con me c’erano Flavio Restelli, compagno di mille imprese pazze e co-fondatore dei Fufu runner’s, gruppo podistico goliardico di Gallarate a cui sono iscritto, il suo amico Giorgio, che verranno con me a Barcellona, e un altro runner di Cassinetta, Daniele Cappellaro. Siamo partiti veloci e fino ai 15-20 km l’andatura sembrava quella di una gara. Ci sono stati tanti momenti in cui il traguardo dei 28 km mi sembrava lontanissimo. Via via però superando questa sensazione il traguardo si avvicinava. LagodivareseNegli ultimi chilometri Daniele è andato un po’ in crisi: era la prima volta che si cimentava su una distanza così lunga. La cosa bella è che senza dircelo – non ci conoscevamo con tutti – chi andava più veloce (Giorgio) ogni tanto tornava indietro e riprendeva a correre da dove si trovava l’ultimo del gruppo. Insomma siamo partiti insieme e siamo arrivati al traguardo allo stesso modo, in un tempo più che ragguardevole. All’arrivo abbiamo festeggiato con delle lattine di birra che ha tirato fuori a sorpresa Flavio. Che bella vittoria! Nella foto, vedete le nostre facce all’arrivo, neanche tanto stravolte (nell’ordine Giorgio, io, Flavio e Daniele). Barcellona aspettaci. Noi siamo pronti.

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