posted: 20/03/13 at 02:35 pm

TUTTE LE SALITE DEL MONDO #5 | DOV’E’ IL LIMITE

By: Ufficio Marketing
Categoria: Storie
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Maratona
Non è una passeggiata la maratona. Per quanto abbia imparato con il tempo a gestire lo sforzo e a superare le crisi che arrivano a tutti, prima o poi, durante i 42 chilometri e 195 metri di corsa, davanti alla partenza di una gara come questa di Barcellona, non riesco ad essere indifferente a quello che ci aspetta. La Marato’ de Barcelona è una delle grandi cittadine, la terza maratona d’Europa per numero di iscritti, dopo Londra e Berlino credo.  Alla partenza in plaça d’Espanya, ai piedi della collina del Montjuïc, mi accoglie un mare – letteralmente – variopinto di maglie, facce, cappelli e palloncini che riempie in lungo e in largo il viale accanto alla Fiera. Sembra più il prato di un concerto rock che la partenza di una gara estrema di corsa per la quantità di persone: 18mila maratoneti e più secondo gli organizzatori.

La sensazione di insicurezza, mista a paura di non farcela o di non essere all’altezza delle prestazioni che ci si è prefissi, una sensazione che aumenta progressivamente dal risveglio fino al segnale di start, è una delle cose più belle  della gara. Voglio viverla fino in fondo. Ma libero, staccato, per quanto possibile, dall’ansia di prestazione – ho deciso per questo di entrare nelle gabbie in fondo al gruppone: un puntino bianco nel mare. Come una spugna cerco di assorbire questi attimi, tutto quello che mi è attorno, nessuno, nessuna cosa mi è indifferente. Tutti i sensi sono accesi. Vivissimi. I colori, le mani, gli occhi. Alcuni amici, arrivati con me dall’Italia, sono persi da qualche parte tra la folla: Flavio, Fausto, Giorgio, Nicola. Ognuno di questi 18mila la vive da solo la sua maratona, in questa dimensione fisica estrema e davanti alla prospettiva, un passo dopo l’altro, di dover percorrere 42 km di questa città sulle gambe. Ognuno a suo modo. Chi, come i kenyani e i top runner, di corsa sfrenata, chi di corsa forte o di buona lena comunque, altri ciondolando a un certo punto, e altri ancora, quando la benzina si esaurisce o se qualcosa del motore si rompe, di passo e correndo, di passo e correndo.

C’è uno tra questi 18mila che arriverà primo al traguardo. Ma tutti, tutti quelli che transiteranno sotto lo striscione dell’arrivo, saranno vincitori, vinceranno la loro sfida. Una gara con 18mila vincitori. Non succede spesso.

Il tempo. Fa un po’ freddo, più del solito in questo periodo di inizio primavera. Oggi in Italia si corre la Milano-Sanremo, classica di ciclismo di inizio stagione. E le previsioni meteo dicono che nevicherà sul Passo del Turchino. Qui piovigina, una pioggerella fitta fitta, non forte, che comunque non aiuta a distogliere dai pensieri sulla sfida che ci attende.

Non sono allenato come avrei voluto o come avrei dovuto. Per vari motivi, tra cui una lunga e strana influenza che non passava mai e che mi ha bloccato per due settimane a febbraio. Ma non importa. Il mio obiettivo è arrivare in fondo, sereno, godendomi le sensazioni positive di questa giornata di sport. Correndo in agilità fino a quando si può. Mi sento bene. E tutto finora è andato come doveva. Mi abbandono in questo mare, lasciandomi cullare dal mondo intorno a me e da quello interiore.

 “Where is the limit?”… Dove è il limite?

La scritta sulla fascia di un ragazzo davanti a me mi colpisce. Che cos’è il limite? Sarebbe forse più corretto dire così, perché semplicemente il limite non c’è. Il limite è nella nostra mente. Siamo noi che ce lo diamo. Qualcosa che scatta davanti alla fatica vera, forse per uno strano istinto ancestrale, antico, scritto nella parte più profonda di ogni nostra cellula, nel nostro Dna. Un segnale che arriva dal corpo alla mente, si trasforma per strane alchimie chimiche, in paura.

 Il pensiero ricorrente che prima di gare come questa, ogni volta, puntualmente, torna a farmi compagnia. Ci sarebbe da scrivere un vero e proprio elogio della lentezza, un elogio alla pigrizia. Pigro. Avete presente Oblomov, il personaggio del romanzo di Goncarov, l’eroe dell’apatia, dell’indolenza e dell’ozio che trascorse la sua esistenza a fantasticare sul divano. A pensarla e a immaginarla la felicità. Senza fare mai nulla. Dormendo e dormicchiando, una stagione dopo l’altra. Sfinito perennemente dall’inazione. In disparte dal mondo e dalla vita. Come un bicchiere sempre vuoto.

Maratona4Non mi spiego altrimenti perché la MIA domanda interiore ricorrente alla partenza di ogni maratona o triathlon sia sempre la medesima: ma chi te lo fa fare, ma perché non sei restato a dormire sotto le coperte, ma lo sai quanto sono lunghi 42mila e 195 metri? Prova a metterli uno dietro l’altro… Eh sì che lo so, lo so, lo so già quanto sono lunghi e quanto è dura percorrerli tutti.

La voce dello speaker  sparata dagli altoparlanti mi distoglie dai miei pensieri oblomoviani. Mani che si stringono, pacche sulle spalle e abbracci di incoraggiamento, occhi che si salutano anche se parliamo lingue diverse. Bang. Via. Si parte. O meglio, partono i primi. Noi siamo quasi in fondo alla marea umana di podisti, più o meno a un chilometro di distanza dallo striscione della partenza: chissà quanto tempo ci vorrà prima di riuscire a muoversi. Nessuno sembra badarci più di tanto. C’è una strana euforia nell’aria nonostante la pioggia che continua a cadere. Davanti a me un gruppo di podisti spagnoli festeggia cantando il compleanno di uno di loro, che salta e danza al centro del gruppo. Due tedesche, forse madre e figlia data la somiglianza e la differenza di età, imperterrite stanno sotto la pioggia come fosse la cosa più naturale del mondo. Avanziamo lentamente, i minuti passano e la partenza non si vede ancora: è lì da qualche parte in fondo al viale, subito dopo la curva. L’altoparlante ora spara musica, il ritmo cadenzato di “We will rock you” dei Queen. Ta ta TA. Ta ta TA. L’adrenalina è a mille. Tutti applaudono a ritmo. Una festa. Della fatica.

Finalmente, quando il grande cronometro digitale sopra lo striscione segna 17minuti e 46 secondi (dalla partenza dei kenyani) passo anche io sotto i blocchi della Sortida, come la chiamano qui. Comincio a correre, nei primi metri avanzo a fatica, ammucchiati come siamo, cercando di evitare gomiti, di prevedere dove poggerà il piede di chi mi trovo avanti. Mi sento bene e corro, corro. Mi sono riproposto di stare sui 160-165 battiti al minuto. Guardo questo riferimento sul mio cardio frequenzimetro, non curandomi del tempo che impiego. Vuol dire che vado all’80% della mia capacità. Vuol dire che il cuore non va al massimo e quindi non rischio più di tanto (alla partenza era a 85-90 battiti), ma vuol dire anche, lo so già, che vado agile, veloce, forse troppo per me. Non riuscirò a tenere 42 km così, non ho la preparazione per farlo e forse nemmeno la voglia ma fino a quando ce n’è vado così, seguendo il ritmo del cuore,  i passi uno dietro l’altro che cerco di fare leggeri, sfidando a ogni metro la gravità che mi attacca sulla Terra.

Sto correndo assieme a migliaia di persone ma sono solo. Solo con il mio corpo, la fatica, il peso dei muscoli e di ogni singola mia fibra. Un passo dopo l’altro e arriverò in fondo.

MaratonapercorsoC’è una linea sottile, di colore blu, come le maglie del Barcellona, che corre lungo l’asfalto, seguendo tutto il percorso attraverso la città: il Camp Nou dove gioca il Barça, la Diagonal, la Sagrada Famìlia, geniale nella follia creativa di Gaudì, la Perderà, la Torre Agbar e tutti i grattacieli futuristici della zona a Nord vicino al mare, i lunghi viali in falsopiano, interminabili, da fare nei due sensi, percorso da un fiume ininterrotto di podisti, fino al ponte di Calatrava, il lungomare e il Porto Olimpico, l’Arco di Trionfo, la statua di Cristoforo Colombo che saluta i naviganti-podisti, con la salita finale che porta su fino alla piazza di Spagna, all’Arribada, l’arrivo.

Cerco di seguire la sottile linea blu, di seguire la traiettoria che fa, schivando i piedi e i corpi che ogni tanto incontro davanti a me, a volte avanzo facendomi largo con le mani, chiedendo permesso, come per non disturbare chi mi è davanti, rispettando pure la sua di fatica. I chilometri scorrono e continuo a superare tanti maratoneti che con il passare del tempo sembrano – sembriamo? – sempre più tante pile che stanno per esaurirsi (avete presente la pubblicità della Duracell con il giocattolo che piano piano si ferma?). Supero il gruppone che corre per finire la maratona in quattro ore e trenta minuti. Dopo un po’ supero anche quello delle 4 ore. Con solo la linea blu negli occhi, le mani della gente, gente bellissima, caliente, che ai bordi della strada saluta i maratoneti. Le mani dei bambini che imperturbabili sotto la pioggia stanno lì con le loro mamme e papà a “dare il 5” a questi pazzi, poveri cristi, che corrono lungo la loro città in pantaloncini e maglietta. Al grido di “Vinga!!! Vinga!”, versione catalana dell’inglese “Go!!”, dell’italiano “Vai!”… Gli edifici catalani quelli no, non li vedo neanche. A Roma lo scorso anno feci lo stesso attraversando Piazza Navona e le sue belle fontane. Così qui passando davanti alle case di Gaudì, non le vedo quasi. Preso tutto dallo sforzo, cerco di tenere la mia andatura costante, il corpo, il rumore dei passi, il respiro cadenzato. Ognuno la vive come vuole la maratona, ognuno ha un rito, un amuleto. C’è chi corre con la musica, chi si aiuta avanzando insieme, chi prega, chi scherza e si traveste. Chi dipinge. Vi giuro mi è capitato di incontrare un podista che correva con una tela in mano, il pennello dall’altro e i colori nella cintura… Oggi ho incontrato un altro di questi tipi bizzarri che corre con un pallone da basket. Ogni passo un rimbalzo della palla. Io voglio viverla da solo questa fatica, fino in fondo, immerso nei miei pensieri fluidi.

“Where is the limit?”

Non so come spiegarlo ma è proprio lì, per me, il bello. Superare il limite. Ogni passo in avanti, ogni passo in quella direzione e il mio modo di rispondere a quella domanda che mi ritornava in mente, come un chiodo fisso, prima della partenza. Chi te lo fa fare. Il limite. Oltrepassare quel muro. E’ questo il senso.

Al km 26 la strada sale  e la pioggia diventa più forte, fastidiosa. La stanchezza comincia a farsi sentire. Ogni gesto, ogni spostamento della gamba diventa un esercizio di forza, interiore. Una sfida al limite dentro la nostra testa. Non mollare. Non mollare proprio ora.

La cosa assurda della maratona è che sembra non finire mai. C’è un momento in cui ci si trova davanti al muro. E l’arrivo, in quell’istante, diventa un punto lontano, troppo lontano da raggiungere. Per me quel momento è arrivato ora. E’ quando il tuo corpo, attraverso la mente, ti dice in mille modi che è meglio piantarla lì, grida, piange, si lamenta in ogni cellula e a ogni passo che fai. E qui viene davvero il bello. Mi sento vuoto, da tutto. Dai pensieri, dal passato e dal futuro. Sono solo qui, ora con la mia fatica e questo canto silente che il mio corpo sprigiona da tutti i pori. Cerco di tenere ancora il ritmo, i battiti ora sono scesi a 155-150 al minuto, segno che sto rallentando. “Ok, hai vinto tu, per ora”, gli dico. “Andiamo avanti così ma al 30esimo chilometro ricominciamo forte”. Questo obiettivo, mi porta avanti, nel momento più difficile. Un ristoro dopo l’altro come riferimento, dove mi fermo e bevo acqua, sali. Arrivo ai 30 che non sono passate neanche 3 ore. Per me è un super risultato. E da lì riprovo a ripartire forte, con lo stesso ritmo dei primi chilometri. Ma il mio corpo si ribella e continua a protestare. L’acido lattico nelle gambe che sono diventate pesanti come piombo mi ricorda a ogni metro la mia fragilità, il legame gravitazionale con questo bellissimo posto che è la Terra. Mi ricorda che sono fatto di sangue e muscoli, ma anche di cuore.

La pazienza è la virtù con cui si fa i conti più spesso nelle gare di resistenza. Tu vorresti arrivare più in fretta possibile. Finirla lì con la fatica. E invece devi conquistarti ogni singolo passo, una vittoria continua sul tuo limite, ammesso che ci sia.

Maratona3Tra la folla, km 31, incontro un podista italiano che si è perso. Luigi, qualche anno più di me, viene da un paesino della provincia di Latina, colline, campagna, spazi verdi. Lui cammina. Mi fermo anche io. Cominciamo a parlare e riprendiamo a correre ciondolando. Mi racconta della sua vita, Luigi il muratore, e di ciò che ha costruito lungo la strada della vita. Un figlio che lo attende all’arrivo, e che si sarà stancato di aspettare. Mi racconta di suo padre che che è morto pochi mesi fa, del lavoro manuale, della sua preparazione così così, della maratona di Firenze che ha chiuso sotto le 3 ore e 30 minuti e di quella di oggi che teme di non finire perché non ce la fa più. Camminiamo e corriamo, Camminiamo e corriamo. L’uomo è un essere sociale. Mi piace l’idea di condividere la fatica e la paura di non farcela. Facciamo un patto: arriviamo insieme. E lui riprende a correre piano, più piano di come andavo prima, ma non so come dire a me va bene così, mi sento felice e lieve dentro appagato da questo sforzo e anche arricchito da questo incontro e da tutti quelli che la vita ci può riservare davanti a ogni prossimo se solo abbiamo gli occhi per accorgercene. La fatica condivisa passa più in fretta e danzando e correndo e camminando e ridendo arriviamo al km 38. Dai Luigi manca poco. All’ultimo chilometro incontriamo due ragazzi della sua squadra. Ormai è fatta. Per entrambi. Luigi mi dice con gli occhi di andare. Aumento il ritmo e arrivo fino in fondo senza accorgermi quasi delle persone che passo, di quelle che mi incitano sugli spalti, senza accorgermi della pioggia e del dolore che mi arriva da tutti i muscoli. Corro corro fino al traguardo. Bacio a terra. E poi torno indietro ad abbracciare Luigi e i suoi amici. Taglio di nuovo il traguardo con lui e gli altri, uno striscione con scritto Italia. Abbiamo diviso un pezzo di strada. E la maratona di Barcellona tra 10-20 anni forse la ricorderò per questo momento.

Post scriptum. Il giorno dopo, sui giornali del mattino, leggo che uno dei 18mila maratoneti, uno dei tanti con cui ho diviso la fatica, che ha corso accanto a me, con il mio stesso tempo per gran parte della gara, dopo l’arrivo si è sentito male e non si è più rialzato. Xavier Jimenez, 45 anni, podista catalano dell’Aese running club, era un corridore esperto e conosciuto in Catalogna. Si è sentito male subito dopo l’arrivo, recita un laconico comunicato dell’organizzazione, dopo che aveva chiuso la sua prova in 4.05.10. E’ stato immediatamente soccorso dall’Unità di pronto soccorso della Creu Roja di Barcellona ma non è servito a nulla. All’ospedale Clinic de Barcellona ne hanno accertato la morte. Dedico la mia fatica a Xavier.

Questo è un nuovo post di Riccardo Barlaam per Tutte le salite del mondo.
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