posted: 15/05/13 at 04:40 pm

TUTTE LE SALITE DEL MONDO #20 | IL CUVIGNONE, LA SALITA DI IVAN BASSO E ALFREDO BINDA

By: Ufficio Marketing
Categoria: Storie
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“Vuoi fare le salite? Vieni con noi, non preoccuparti…  17-Brinzio 1926Andiamo al Lago di Varese e da lì si apre un mondo”… Il messaggio rassicurante di Flavio Restelli, Flavione, compagno di mille avventure pazze, non lascia presagire nulla di buono. Così facciamo, il primo maggio, assieme ad altri due compagni di pedale, FabioVelasco Giani, il ciclista perfetto, omo da tour, quello che va forte di default, e Massimo Puricelli, presidente a vita dei Fufu Runners perché arriva sempre in fondo, con orgoglio, anche se dietro, detto Indurain, forse per via della sua poca attitudine con il pedale quando comincia la salita, in barba al Navarro che quando ci si metteva, nonostante i suoi ottanta chili e la sua stazza da body guard, sì che le faceva le salite, sempre davanti a tutti. Hombre, l’ora è giunta. Si va. (nella foto Alfredo  Binda sul Brinzio, sterrato, al Giro di Lombardia del 1926)

Il tempo oggi sembra volgere al bello, per la prima volta da quando ho cominciato ad andare in bici quest’anno. Spiragli di primavera. Come da programma, parcheggiamo davanti al Lago di Varese, e da lì cominciamo a pedalare.

Destinazione: “Cuvignone”, mi dicono. “Cuvi che?…” “CU-VI-GNO-NE”…

Azzate-20130501-00323Avanziamo sul lungolago, strada piatta con qualche saliscendi qua e là e orde di ciclisti in ansia di prestazione che passano a 38-40 all’ora… manco dovessero andare al Giro. Noi quattro moschettieri della domenica continuiamo al nostro passo, incuranti del mondo attorno. Dopo una inevitabile e corroborante sosta caffè-cappuccino – “Sai com’è: faccio il pieno di energie”, mi dice sorridendo il presidente che, a differenza di me, sa che cosa ci aspetta oltre la curva la in fondo – cominciamo a salire.

Il Cuvignone, tra la Valcuvia e Luino, a pochi chilometri dal confine con la Svizzera, è la montagna dei ciclisti del Varesotto. In cima si arriva a 979 metri, ma si parte dai 190 metri del lungolago. Quasi 800 metri di dislivello in 8 km e poco più di ascesa,  con l’8,9% di pendenza media e tratti al 14-15%. E’ la salita dove si allenava Alfredo Binda. Ma anche quella di Ivan Basso, che la fa come se bevesse un bicchiere d’acqua 2-3 volte di seguito a tutta, come ripetute, a fine giornata. Un test per il campione: “Da come vado sul Cuvignone capisco il mio stato di forma”, ha avuto da dire un giorno al mio socio di pedale FabioVelasco che me lo racconta mentre arranchiamo sui primi tornanti.

Il luogo è magico, circondato Brezzo di Bedero-20130501-00346da una vallata selvaggia e poco abitata. Lussureggiante in questa giornata di inizio primavera. L’asfalto a tratti è bagnato dai mille rivoli di acqua che scendono dal monte, neve sciolta al sole. Di auto non se ne vedono molte. La fortuna di questo posto è stata quella di non avere subito la cementificazione delle seconde case negli anni 60-70. Questa sensazione di abbandono, di mancato sviluppo,  è stata la sua salvezza. Un posto che consiglio a tutti per immergersi in un panorama intatto a poca distanza dalla Lombardia dei capannoni industriali, dalla Milano-Varese urbanizzata a ogni metro.

Il Cuvignone è una sorta di rito iniziatico per tutti i ciclisti che vogliono cimentarsi con le salite, un battesimo di fuoco o paradiso del pedale, a seconda dei punti di vista.  Il momento è arrivato. Dal lungolago si svolta a destra e subito si comincia a salire scalando al rapporto più agile e poi ancora a quello più agile ancora, fino a non averne più. Il primo e l’ultimo tratto sono i più duri.

I quattro dell’apocalisse cominciano la loro “impresa”. Ognuno al suo passo, chi davanti e chi, da subito, indietro. E’ una bella giornata. Pedalo agile, incurante dell’ascesa. Voglio godermi tutte le sensazioni che verranno, conquistando una pedalata dopo l’altra, una stilla di sudore dopo l’altra.

Con questi tre amici, tra qualche giorno andremo a seguire il Giro d’Italia, in bici ovviamente, nella tappa che scollina sulle Alpi francesi, con l’arrivo al mitico Galibier… Non so se avete presente. Faremo tutta la salita prima, molto prima dell’arrivo del Giro, e poi aspetteremo l’arrivo, magari tra concioni sul vino rosso, sui monti, sulla vita e chissà cos’altro… Insomma da compagni di scuola.

Quella di oggi è una sorta di prova generale prima dei 30 k di salita del Galibier. Una prova della via crucis, prima della via crucis.

Il Cuvignone – cavoli non riesco a ricordarlo proprio ‘sto nome – tira subito “di brutta”. Si attraversa Cittiglio, con le case, villette vista lago, sulle collinette che danno sulla strada. Ci sono davvero tanti ciclisti che si cimentano su questa salita. Una scritta perentoria con una bomboletta spray su una colonna di un cancello ci saluta tutti in un modo insolito, Scrittamuronel momento più acuto della sofferenza, con la pendenza al 14%, un muro che sale, tra le case, frutto della trovata di qualche buontempone della zona. Recita così: “Ciclista! Tua moglie è a casa a scopare”, sottinteso: mentre tu fatichi sui pedali. Inevitabile una risata. Ci aiuta comunque a relativizzare la salita e l’ansia di prestazione che nessuno di noi, a dire il vero, sembra avere più di tanto. La scritta del buontempone merita una sosta comunque per una foto. E via si riparte, nel vento del Cuvignone e tra i boschi che cominciano lasciando alle spalle le ultime case di Cittiglio.

Cittiglio è il paese natio del grande Alfredo Binda: tre volte campione del mondo, tante classiche epiche (famosa la vittoria al Giro di Lombardia del 1926 – quella della foto sopra – quando dà 29 minuti di distacco al secondo, dopo aver trangugiato 28 uova), 5 giri d’Italia stravinti, primato eguagliato solo da Fausto Coppi ed Eddy Merckx. Insomma, uno dei più forti corridori di sempre, l’unico pagato dagli organizzatori (con la bella somma 22.500 lire, equivalente a un super ingaggio annuale per un campione di allora) per non partecipare a un Giro d’Italia, anno domini 1930, perché con lui non c’era gara. Inutile farla. Si sapeva già il nome del vincitore.

Binda, la sua storia, le sue vittorie ma anche le vicende attorno allo sport e alla sua vita, raccontano di un ciclismo epico, operaio, eroico, da pionieri. Fatto di fatica e di pane e salame. Le bici migliori pesano una dozzina di chili e per cambiare rapporto, prima di una salita come questa, bisogna fermarsi. Decimo di 14 figli, a 17 anni  Binda raggiunge il fratello a Nizza. Vuole imparare a fare il decoratore, stucchi e gessi, fregi sulle pareti, come usa allora in piena Belle Epoque, da uno zio che ha una ditta nella città transalpina. Trova la bici e la gloria. Vince subito tanto. La squadra La Française lo ingaggia e lo tessera tra i professionisti. Stipendio: 800 franchi al mese. La bici diventa il suo lavoro al posto dei fregi. Nel 1924 ha già vinto 38 corse. Rapidamente la fama del giovane emigrante italiano, fenomeno del pedale, si diffonde in tutto il paese Binda. I francesi lo chiamano “la Gioconda” perché è bello dicono come il capolavoro del Louvre e lo adorano.

Torna in Italia da campione e vince da subito con la maglia della Legnano. Ingaggiato per 12mila lire l’anno. Il suo mito è Costante Girardengo, l’omino di Novi, campione, rivale che supera in fretta sulle strade sterrate dell’Italia del primo dopoguerra. Al  suo primo Giro del 1925 viene lasciato libero di fare la sua corsa. E vince rifilando quasi 5 minuti a Girardengo.

Era uno scalatore fortissimo Binda. E il Cuvignone, proprio sopra al suo paese tanto amato, era la sua palestra. Anche il Brinzio – che ho scoperto essere la salita che faremo dopo – era suo pane quotidiano. C’è una foto che lo ritrae in gara sulle strada bianche del Brinzio, il tubolare di scorta incrociato sulle spalle, lo sguardo perso nella fatica.

Binda era un campione ma anche un gentiluomo, uno che aveva rispetto degli avversari. Quando si parlava delle sue rivalità, rideva raccontando che erano solo i giornalisti a crearle per far vendere più copie. Lui rivali non ne aveva. Arrivava semplicemente primo. Più tardi fu commissario tecnico della nazionale, negli anni di Coppi e Bartali. E’ celebre la foto di lui in auto, al tour del ’48 vinto da Bartali, foulard, megafono in mano che incita il campionaccio toscano. La sua capacità di appianare, di creare squadra, ponti, alleanze, fu una delle ricette vincenti di quegli anni così ricchi di successi per il ciclismo italiano ma anche di rivalità.

Ripenso alla sua storia mentre continuo, nel mio piccolo, a pedalare sulla salita del Cuvignone. Il mio amico Massimo è rimasto indietro, allora mi metto a fare il gregario e lo aspetto… E’ la prima volta forse che inforca una bici quest’anno. CuvignoneMa è un fenomeno perché al suo passo, lento lento, arriva, soffrendo, sempre fino in fondo. A volte è capitato, inaspettatamente, che ha battuto Fabio Velasco, l’omo da tour: la cosa ha scatenato una ridda di polemiche sulla validità della prova (due volte narrano i ben informati: sul passo Sella e sul Campologno, grazie alla tattica e al gioco di squadra) … Una sorta di teatrino, divertente, andato avanti per mesi…

Siamo alla fine della prima parte della salita. Si intravede in lontananza un tratto che quasi spiana. Un po’ di respiro. Quando si sale sulle gambe spingendo sui pedali, vincendo la fatica a ogni metro, magari a zig e zag come capita nei punti più duri, vedere oltre l’orizzonte che la linea di asfalto si interrompe, che lascia intravedere – che so io – un lieve avvallamento, un pezzettino in piano, prova nei ciclisti la stessa sensazione che deve provare un uomo nel deserto, sotto il sole, quando intravede le palme, un’oasi, il miraggio. E’ così per noi. Il miraggio della pianura, che dura poco però, avviene a mezza costa. Località Vararo.

Ci aspettano al cartello gli altri due moschettieri che sono andati in fuga. Il panorama si apre su una bella vallata verde. Il cielo è limpido, pieno sole. Ci prendiamo un po’ di tempo per le foto e ripartiamo. La seconda parte del Cuviglione è più “montagna”, la strada si fa più stretta e taglia un bosco fitto di castagni che fa ombra e rende meno faticosa l’ascesa nelle ore più calde della giornata, si arriva fino al passo immersi nel bosco, con solo un breve tratto senza alberi che si apre alla pianura padana, con il fondo stradale rovinato e il sole, prima di reimmergersi nel bosco per gli ultimi metri fino al valico. In alto, oltre a un gruppo di escursionisti in cerca di funghi, c’è il solito spettacolo di rifiuti lasciati per terra dai ciclisti passati già di qua. Certo mancano i cestini, ma sarebbe tutto pulito se tutti gli amanti del pedale imparassero la semplice tecnica, una volta consumate, di rimettersi in tasca i contenitori vuoti delle loro cibarie e diavolerie energetizzanti varie.

La discesa verso la valle dà sull’altro versante del monte. E’ immersa nel bosco, con dei tratti veloci e tante curve, molto tecnica. Facile prendere velocità, più facile cadere. Brezzo di Bedero-20130501-00345Scendiamo in qualche modo. Di solito il nostro Nibali, pazzo per le discese, è il vecchio Flavio che si lancia, memore dei ricordi di tempi migliori, di passati trascorsi agonistici tra esordienti e allievi,  si lancia a missile, rischiando non poco, acrobata sul filo, e non frena mai (proprio così) fino all’ultimo cm utile prima di curvare. Lo lasciamo andare nella sua simpatica follia. E arriviamo anche noi in qualche modo in fondo. Dopo un forcing tra le prime colline e saliscendi nella strada che va verso Casalzuigno ci fermiamo a un fontanile. Via i tacchetti, Clac, le bici appoggiate al muro e andiamo a riempire le borracce continuando a scherzare. Dall’altro lato della strada ci osserva un bambino con uno sguardo inquisitorio, fortemente inquisitorio.

Il piccolo Daniele (mi sembra si chiamasse così) ci dice che è lì sulla strada, ma che quella non è la sua casa. Suo padre fa l’idraulico e sta rifacendo un bagno. E lui, che si annoia evidentemente, costretto a seguirlo la domenica mattina, è lì a guardare il suo Giro d’Italia personale. Con i ciclisti che passano. In due minuti ci ha racconta la sua vita. Davvero un fenomeno. Siamo pronti per ripartire. E lui è pronto per emettere la sua sentenza. “Quella lì – dice puntando il dito – quella bici lì fa proprio schifo”. Nooo!, ci guardiamo tutti attoniti. Adesso scoppia la guerra mondiale. Sta puntando proprio la bici di Fabio Giani, l’unico ciclista vero tra noi, quello sempre a posto, sempre avanti di un metro…Per fortuna FabioVelasco sta al gioco. Incassa il colpo. Gli scappa anche a lui un sorriso sotto i baffi che non ha mentre ripartiamo allegramente. Leggeri e lontani da tutto. Questa simpatica passeggiata tra le salite del varesotto non è finita qui.

Mi dicono che ci sono ancora due valichi da conquistare: il Brinzio e, tanto per gradire, il Sacro Monte, sopra Varese. Una simpatica passeggiata che rischia di diventare un incubo dopo tre ore e passa di bici. Il cielo a questo punto è diventato pieno di nuvole e rischia di piovere. Pensavo di ritornare a casa in tempo per il pranzo. Ma i tempi del pedale sono diversi da quelli programmati di un’auto dove basta pigiare il pedale per arrivare prima. Qui bisogna pedalare. Una pedalata dietro l’altra e ogni volta le variabili sono tante. Ogni volta una storia a sé. Con la bici però c’è il gusto della strada, un senso di precarietà che si è perso nell’era della velocità automunita. Pazienza, salterò il pranzo domenicale… Intanto i ragazzi mi dicono che sul Brinzio hanno una scommessa per chi arriva per primo in cima. Il Brinzio è meno impegnativo del Cuvignone. Si va più veloci. E’ una salita che tutti gli amatori della zona conoscono, non troppo lunga, con pendenze dolci, ma che fa parte della storia del ciclismo. Su queste strade sono passate tante gare. Complice il fatto che a un certo punto c’è un monumento dedicato ai ciclisti. La Madonnina del ciclista con un bassorilievo dedicato Luigi Ganna, vincitore del primo Giro d’Italia nel 1909 e a Binda che su queste erte correva, la polvere in faccia della strada sterrata mischiata al sudore, verso un’altra delle sue vittorie. Incontriamo diversi ciclisti sulla strada. A un certo punto mi passa davanti uno cBrinzio-20130501-00353on una super Wilier ultimo modello, una 0.7, una di quelle che pesano poco più di sei chili. Non se ne vedono tante in giro. Incuriosito da quella bici quasi gemella a quella che ho in uso in questi mesi, provo a stargli dietro. Vince  viene dall’Australia, mi racconta che  con un amico di Varese ha aperto un’agenzia turistica, la Punto Tours, dedicata alle persone che dall’estero vengono in Italia e in Francia per provare che cosa significa la parola ciclismo nei paesi dove questo sport è nato. La sua agenzia, tra gli altri, organizza proprio viaggi nelle terre e nelle colline dove è nata la Wilier… Da qui la passione di Vince per il marchio de “Viva l’Italia libera e Redenta”. Ci diamo appuntamento per la tappa del Giro sul Galibier: “Devo portare su un gruppo di australiani che vengono per vedere l’arrivo. Sai c’è la crisi. Ne arrivano meno in Italia, ma arrivano”. Curioso che dall’Australia Vince, sia arrivato in Italia – di questi tempi succede il contrario – e che sia riuscito a trasformare la sua passione in un lavoro.

Finalmente siamo arrivati a Varese. Ma non è finita qui. L’ultima tappa della Via Crucis prevede anche la salita del Sacro Monte. Altri 11 km di salite per circa 700 metri di dislivello, insomma non è una passeggiata soprattutto a fine giornata con lo stomaco che continua a reclamare un po’ di attenzione e la lampadina della riserva di carburante che a questo punto si è accesa sul rosso fisso. Il presidente ci saluta e punta direttamente al parcheggio sul lungo lago con il pensiero al tavolo imbandito di casa e al momento in cui ci metterà le gambe sotto quel tavolo. Ok vengo, non mi tiro indietro. Ci sono salito qualche giorno fa lì, da solo sotto la pioggia. Un tempo da lupi. Dai forza.

Parto agile, forse troppo veloce e insolitamente passo senza apparente fatica anche FabioVelasco che di solito ci precede di una spanna… Flavio è rimasto indietro, ma a un certo punto mi imballo anche io e mi appoggio a un muro per riprendere fiato: la stanchezza comincia a farsi sentire. Il mio amico FabioVelasco mi passa ma poi, poco prima dell’arrivo, torna indietro e con perfetto spirito sportivo da Fufu Runner (vince chi arriva ultimo) mi viene in soccorso. Arriviamo al piazzale dell’elicottero con una sensazione di sollievo, di fine della storia, dopo quasi 5 ore di pedalate, 77 km e 1700 metri di dislivello. Galibier arriviamo.

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